Pixels_Locandina

Sabato scorso sono andata al cinema a vedere “Pixels”, film che attendevo da quando avevo avuto sentore che trattasse di un’invasione del mondo da parte dei videogiochi degli anni Ottanta.

Folle.

Se avessi saputo chi era Adam Sandler, avrei schivato questo film e avrei usato gli 8,50€ del biglietto per qualcosa di decisamente più utile e piacevole, tipo una pizza. Invece sono andata al cinema abbastanza piena di speranze, solo per vedermele distrutte nel giro di poco più di un’ora e mezza.

Questa recensione sarà uno spoiler fatto e finito ma, indovinate?, c’è ben poco da spoilerare, perché la trama è talmente inconsistente e banale e dichiarata, che vedere il trailer è già lo spoiler più grande di tutto ciò che il film vi riserverà. Procedete a vostro rischio e pericolo.

Dire che “Pixels” era un film imbarazzante, senza né capo né coda, è come sparare sulla Croce Rossa ma è la realtà dei fatti. Dal primo all’ultimo fotogramma la coerenza narrativa, il passaggio da una scena all’altra, la caratterizzazione dei personaggi, lo scambio di battute fra di loro, tutto sembra frutto di una sceneggiatura messa in piedi da un tram (cit.) team di quindicenni in piena tempesta ormonale che non riescono a raggiungere la sufficienza neanche nei temi scolastici.

Per riassumerlo con le immortali parole di un gigante di un certo cinema italiano, Pixels:

Potemkin Fantozzi

È stata un’ora e mezza di agonia e pericolosi sommovimenti intestinali, ho guardato metà del film con una mano sulla faccia per l’imbarazzo. Non l’imbarazzo di trovarmi lì, l’imbarazzo per chi aveva avuto il coraggio di assemblare un film del genere e chi ci aveva lavorato dentro; vedi tu che si deve fare oggi per tirare a campare.

Sono una persona buona quindi voglio comunque cominciare dalle cose che si salvano. Che sono essenzialmente due: la colonna sonora e le vere e proprie battaglie contro i videogiochi. Sulle “partite” a cui gli esseri umani vengono costretti a partecipare, per evitare l’invasione della Terra, posso solo inchinarmi. Sono state bellissime. Se tutto il film non fosse stato altro che un susseguirsi di partite a Centipede, a Space Invaders, a Donkey Kong, ad Arkanoid, a /inserire qui titolo a caso rilasciato prima del 1982/ con la musica degli anni Ottanta in sottofondo, guardate, avrei dato cinque stelle su cinque a questo film. Ero disposta a vedermi un’ora e mezza di videoclip patinati su esseri umani veri che finiscono dentro lo schermo di un videogioco, non avevo firmato per questa tortura.

Perché il punto è che, tolte le musiche e tolti i pixel in 3D, il resto è noia. Noia nelle migliori delle ipotesi. Non c’è una trama, tanto per dirne una. Non è un “Indipendence Day” in salsa videoludica, l’obiettivo dei nostri tre “eroi nerd” non è sconfiggere il nemico e salvare l’umanità. Sam Brenner, il protagonista interpretato da un sempre più imbolsito e meno talentuoso Adam Sandler, deve sbloccare l’achievement più ambito e insidioso, quello che non è protetto dal boss finale del gioco – bazzecole! – ma dal boss più forte della più assurda delle side quest, che per trovarlo manco ti basta la guida ufficiale del gioco.

Sì, insomma, il nerd deve conquistare la figa di legno.

Avete capito bene, hanno tirato su un intero film sui videogiochi solo come pretesto di sfondo per animare l’ennesima commediola sentimentale in salsa pseudo-fantascientifica, dove il nerd che negli anni Ottanta era un adolescente sfigato è oggi un quarantenne sfigato e divorziato che è tanto bravo ma nessuno lo ama e lo capisce davvero.

La figa di legno sarebbe Vanessa Van Patten, tenente colonnello dell’esercito che però, come tutte le principesse dei vecchi videogiochi, ha la principale funzione di essere un piacevole decoro all’ambiente in un film pieno di bruttoni dalle dubbie doti. Credo che ricorderò per sempre il personaggio di Sam per il tempismo: provare a baciare una donna conosciuta da neanche mezz’ora, dato che sei il tecnico chiamato a sistemare il televisore con annessa PS4 e impianto stereo che lei ha regalato a suo figlio (voglio che questa donna mi adotti), solo perché l’hai trovata a piangere mezza ubriaca sul marito che l’ha appena mollata è una mossa raffinata e di tatto. Chissà come mai Vanessa si permette di tirarsi indietro, ma che oh. Fortunatamente Sam ha la frase giusta per mettere al suo posto questa sporca arrivista, che non lo rifiuterebbe “se fossi un miliardario su uno yatch” (cito a memoria ma il senso era questo): «Lo sai perché noi nerd baciamo meglio? Perché ci crediamo davvero».

Ricardio Nice Guy

E tutto il film viaggia su questa logica da Nice Guy. Da Adam Sandler che passerà un film intero a essere un inutile bamboccione sentenzioso (che però sa prevedere gli schemi di gioco degli arcade games degli anni Ottanta, woah, such talento, much speciale), ai suoi degni compari, Wonder Boy e Fire Blaster (avevano dei nomi veri ma non me li ricordo e non li voglio cercare) è tutta un’apologia del bravo ragazzo sfigato a cui nessuno dà una possibilità e chissà come mai.

La storyline di Wonder Boy è da brividi: la tipica caricatura del nerd grasso e sgradevole, teorico del complotto e con una cotta adolescenziale impossibile per la protagonista femminile di “Dojo Quest”, Lady Sonia. Nel più improbabile e demenziale dei plot twist, Lady Sonia si presenta in pixel e ossa davanti a lui durante l’invasione totale degli alieni sulla Terra e, dopo un breve combattimento dove ha la meglio, Wonder Boy le confessa i suoi sentimenti e lei lo ammazza.

Magari.

No.

Lei lascia cadere le katane e lo bacia. (?!?) Quindi si unisce a lui e Fire Blaster e li aiuta a combattere contro gli invasori, finché Adam Sandler non vince contro Donkey Kong e lei sparisce.

Meno male, allora c’è ancora un po’ di sens…

No, come non detto. Dato che per ogni vittoria dell’umanità contro gli alieni veniva loro donato un trofeo sotto la forma di un personaggio dei videogiochi abitante del pianeta invasore, il piccolo Q*bert (il personaggio più adorabile e sensato di tutto il film, a essere sinceri) che era rimasto fra loro, viene trasformato in Lady Sonia e così Wonder Boy può finalmente copulare con il sogno della sua vita, dopo essere rimasto quarant’anni vergine.

Morale della favola è: non importa cosa c’è sotto, l’importante è che da fuori sembri una gnocca spaziale e muta, che si comporta da bambola gonfiabile animata.

E andiamo allora.

La storyline di Fire Blaster non è meno demenziale e moralista, a suo modo. L’unico lato buono del personaggio è l’essere interpretato da Peter Dinklage che è stato, tipo, l’unico attore espressivo di tutto il film. Anzi, se non fosse stato per il doppiaggio italiano, che dava un minimo di interpretazione alla performance degli attori, il tutto sarebbe risultato doppiamente noioso e incolore. Comunque tutto ciò che il nostro vuole e ottiene, in cambio della sua partecipazione nella guerra contro i videogiochi, è una vita esentasse e un panino con Martha Stewart e Serena Williams.

No, non il panino in senso gastronomico, dai, avete capito benissimo di che panino stiamo parlando (per chi mi segue in ambito fanficcaro: quello dove di solito finisce Ichigo Kurosaki).

E naturalmente l’ottiene, vi pare! L’ottiene dopo aver vinto la guerra e fatto ammenda perché, ai tempi del campionato mondiale di videogiochi del 1982 in cui aveva strappato il titolo di miglior videogiocatore del mondo a Sam Brenner ragazzino, battendolo a una partita di Donkey Kong, aveva barato scrivendosi i codici dei videogiochi sui vetri degli occhiali da sole. Perché i bravi ragazzi non barano, avete capito?!

Questo film è tutto un enorme fan service che solletica i desideri di rivalsa più nascosti e infantili dell’ex-nerd degli anni Ottanta. Ogni momento della narrazione è asservito a ribaltare la realtà per spedire in faccia allo spettatore e al mondo tutto un sonoro “A-ha!”, urlato nella voce più petulante di Nelson dei “Simpson”. Un film inzeppato di insopportabili filippiche su quanto erano belli i videogiochi di una volta, che avevano uno schema e non prevedevano che i giocatori si muovessero a caso e non erano così violenti e pieni di sangue, come blatera penosamente Adam Sandler al figlio di Vanessa, che sta giocando a “The Last of Us” sulla PS4. Perché naturalmente oggi esistono solo i survival horror e gli FPS. Che ci siano anche gli strategy games, gli RPG, le visual novel, gli indie games e quant’altro è cosa che non ci compete, perché il film l’ha prodotto la Sony e nel film vedrete solo marchettoni imbarazzanti per i suoi prodotti (sì, c’è addirittura una sequenza in cui viene sbattuto in primo piano per più di dieci secondi un Experia Sony; questo film si merita i Razzie Awards senza neanche passare dal via).

La parabola ascendente di Sam Brenner è forse il più lampante esempio di quanto questo film sia un’accozzaglia di contentini per un pubblico di nostalgici che giocavano ai “videogiochi veri”, quelli dei primi anni Ottanta. Ci viene presentato come un fallito (insomma, non è che solo perché sei un onesto tecnico di impianti elettronici, devi essere un fallito), perché Fire Blaster lo aveva battuto al famoso campionato di videogiochi che dà il via al film. Motivazione intelligentissima. Arrivi secondo a un super-campionato mondiale a dodici anni, sei per forza destinato al fallimento. La moglie lo ha lasciato per il medico che doveva aiutarli a fare un figlio – trigger warning: nel film le donne o sono fighe silenziose che fanno il tifo per te, o sono fighe di legno che se la fanno con te solo se sei vincente, o sono troie che ti hanno mollato/hanno rubato il marito alla tua futura donna – e lui non sa fare altro che reagire come un quindicenne poco intelligente, quando vede Vanessa, ovvero muggire un “Woah” che probabilmente serve a distrarre l’attenzione da altre reazioni fisiche.

Però poi scopre che solo lui e i suoi due amici – ma lui di più – possono salvare il mondo (come se non ci fosse un’intera community di videogiocatori in giro, vabbè), facendo quello che sanno fare meglio: giocare a videogiochi che non riprendono in mano da anni. Sarà un successone. E poi, quando Sam dovrà affrontare il boss finale nelle vesti di Donkey Kong, la nemesi che non era mai riuscito a battere nel 1982, come un deus ex machina il figlio di Vanessa gli dimostra che Fire Blaster aveva barato (buhu!) e quindi è lui il vero campione del mondo. E vai, parte “We will rock you”, siamo tutti fighi, power-up interiore e il sadico scimmione lancia-barili viene abbattuto con una martellata.

Pare superficiale aggiungerlo, s’è già capito, ma noi di questi alieni sappiamo e sapremo sempre poco o nulla. Perché hanno assunto la forma di videogiochi? Perché hanno deciso di prendere il video sui campionati mondiali di videogioco per una dichiarazione di guerra? Che vogliono? Come sono fatti davvero? Come girano le cose sul loro pianeta? Perché il boss finale fa salire il nemico sulla sua stessa navetta senza neanche passare dal via?

Ma chissenefrega! L’importante è far parlare Adam Sandler per tre quarti di film, farlo pontificare sul fatto che una volta si andava a giocare nelle sale videogiochi e così si socializzava

Aldo invoca la Madonna

Fargli sparare menate sul fatto che lui vede gli schemi e un gruppo ben addestrato di Marines non sa farlo perché, buhu, non è più tempo di omoni muscolosi e bulli, finalmente la rivincita di tutti i nerd del mondo è arrivata, eh!11oen!11one

Voglio glissare sui dialoghi del film. Erano brutti ma brutti di un brutto che non ve lo sto a raccontare. Lo so che il livello medio del blockbuster contemporaneo è bassissimo e si rivolge più o meno al bimbo in età prescolare cresciuto a pane e “Playhouse DIsney” ma qui si sono raggiunte bassezze inenarrabili. Se non ci si trovava davanti a dialoghi monchi e zoppicanti e privi di senso fra il protagonista e i suoi amici, c’era sempre qualcuno che doveva fare qualche pseudo-battuta a sfondo sessuale.

Il momento più alto (o forse più profondo nel mare magnum dello squallore) si è raggiunto quando Fire Blaster, trovatosi davanti a Toru Iwatani, creatore di Pac-man, gli rivela: «Pac-man è la mia puttanella».

Andrew Scott Ha Detto No

MA PERCHÉ?!

No, anzi, non voglio sapere il perché.

Tutto quello che posso consigliare a chi vuole andare a vedere questo sfacelo, è di non farlo, a meno che non abbia tanti soldi da buttare, una passione per il trash come ce l’ho io e degli amici con cui fare molte battute per impegnare il tempo del film in qualcosa che non sia spaccarsi le gonadi sulla poltrona di un cinema.

“Pixels” non raggiunge le attese del cortometraggio da cui è stato tratto. Non è un film sui videogiochi, intelligente e commovente, come poteva esserlo “Ralph Spaccatutto”. Non è un film che trasforma il videogioco in uno strumento per risolvere un conflitto bellico, come in “War Games”, quello sì un glorioso film degli anni Ottanta che vi consiglio di vedere. Non è un film che fa bene ai videogiochi. Sembra, più che altro, la cattivissima fotocopia della brutta copia di uno dei tre sketch di una gloriosa puntata di “Futurama”, che in dieci minuti riuscì non soltanto a tirare su una trama intelligente e demenziale al punto giusto, ma rese onore agli arcade games e si prese persino il tempo di esplorare le ragioni del nemico invasore.

Guardatevi altro, insomma, che per un bel live action sui videogiochi ci sarà ancora da aspettare parecchio. Soprattutto sperando che Adam Sandler non ci metta sopra le mani.

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