La tomba delle lucciole

L’ho detto per “Inside Out” e lo ripeto anche qui senza tema di sbagliarmi: ci sono determinati film che sono fatti per toccarti l’anima; film che non importa se tu li abbia amati o odiati visceralmente, ti hanno provocato un’emozione fortissima guardandoli, perché restare indifferenti non si poteva; film che sono capolavori per l’efficacia e la profondità con cui esplorano i sentimenti più forti che gli esseri umani possano provare, catartici per il dolore che ti costringono a provare, come le antiche tragedie greche.

Ecco, “La tomba delle lucciole” è uno di quelli, un film d’animazione talmente crudo, triste, reale e delicato che è – udite udite – considerato espressione del cinema neorealista. E non gli si può dare torto, perché questa storia dolce e amara insieme mostra la guerra senza pudori, mostra la miseria, la fame, la disperazione, la morte ma anche l’amore senza alcun velo, con una precisione che scende fin nei minimi dettagli della definizione del paesaggio e degli oggetti di uso quotidiano.

“La tomba delle lucciole” è l’adattamento cinematografico di un romanzo semi-autobiografico di Akiyuki Nosaka, che durante i bombardamenti perse la famiglia adottiva e la sorella minore di quattro anni. La storia del racconto breve e del film è, però, ancora più triste e straziante di una realtà di per sé già dura.

Il problema è che lo Studio Ghibli ci ha abituati bene: c’è una dolcezza e una leggerezza nei racconti della casa di animazione nipponica che consola sempre il cuore e lascia lo spettatore appagato ed emozionato, alla fine di ogni proiezione. È quasi mostruoso (in senso buono) invece il contrasto nettissimo fra il modo lieve che questo film ha di narrare la sua storia e i fatti mostrati sullo schermo, crudissimi, ingiusti, decisamente troppo veri per lasciare indifferenti.

Credo di non aver mai visto un film così intriso di dolore e disperazione come “La tomba delle lucciole”, né di aver mai sofferto fisicamente tanto osservando una vicenda che si dipanava verso un unico finale, scontatissimo per le logiche del buon senso ma dolorosissimo, una volta che ti sei affezionato ai personaggi. E ti affezioni. Come fai a non spezzarti dentro di fronte al dramma di due bambini, un fratello e una sorellina, che devono vivere il terrore dei bombardamenti aerei, che si ritrovano a perdere la madre e venire ospitati a malincuore da una lontana conoscente che sembra più interessata a procurarsi un pugno di cibo in più e lamentarsi della loro presenza, ignorando bellamente le loro richieste di aiuto e di affetto?

Tu sei Seita, il fratello maggiore, mentre ti lasci trasportare tanto, troppo, dallo scorrere degli eventi, senti la sua paura, lo smarrimento di un bambino che vorrebbe solo giocare e vivere la sua infanzia con sua sorella in santa pace, e invece è costretto a portarsela a vivere in una caverna, in mezzo all’indifferenza degli abitanti del villaggio che di cibo da mangiare ne hanno più che a sufficienza ma guai a stendere un po’ la mano per offrire solidarietà a chi non ha armi e maturità per difendersi.

Non puoi fare altro che accorgerti di quanto sia terribilmente vera e palpabile la meschinità di adulti che provocano una guerra e poi si liberano di tutte le zavorre, diventando specchio di un’umanità che i suoi cuccioli non li sa difendere, l’esito più assurdo e orrido in una logica che di naturale non ha nulla. E tutto questo è amplificato, cronicizzato dal modo in cui la narrazione ti mostra la lenta discesa verso la fine di Seita e Setsuko, ingannandoti con tanti piccoli momenti di apparente felicità quotidiana, affogandoti nei loro abbracci spaventati, portandoti per mano lì dove il dolore è più forte, in una sequenza visivamente e narrativamente distruttiva, dove il fratello maggiore abbraccia il corpo esanime della sua sorellina senza poter fare nulla.

Perché la cosa più terribile di questo film non è solo l’estrema verosimiglianza dei fatti narrati ma la precisa crudeltà con cui niente viene risparmiato allo spettatore. Tutto lo dobbiamo sentire, il dolore di Seita e Setsuko. Dobbiamo guardare in faccia il viso martoriato e ricoperto dalle bende del cadavere della loro madre; dobbiamo assistere alla cattiveria, centellinata giorno dopo giorno, con cui la donna che li ospita in casa li fa sentire sempre più estranei fino a costringerli praticamente ad andarsene; dobbiamo guardare con orrore la meschinità con cui il proprietario di un orto riempie di calci e pugni Seita che ha avuto l’unica colpa di rubare gli scarti del suo orto perché sua sorella sta letteralmente morendo di fame, ignorando le sue preghiere e i suoi urli disperati.

Il momento più basso di quest’umanità egoista e avida è forse quello però in cui Seita chiede a un vecchio del villaggio, che gli ha spesso fornito a pagamento qualche rara provvista, la bara di legno in cui cremare il corpo di Setsuko e quello gliela consegna con tanto di spiegazioni ben dettagliate su che tipo di esche usare per bruciare efficacemente un piccolo corpo, per poi avere il barbaro coraggio di terminare le sue osservazioni con un: “Che bella giornata di sole che c’è oggi” e continuare commentando su come sia bello che la guerra sia finalmente finita, come a dire che lui con quel dramma non vuole azzeccarci nulla, neanche sprecare due parole di conforto per un bambino disperato.

E allora capisci perché, all’inizio del film, Seita dichiara solennemente: “la sera del 21 Settembre 1945 io sono morto”. Affamato, disperato, distrutto dal dolore Seita muore davvero all’inizio del film, fra l’indifferenza dei passanti e degli inservienti della stazione che osservano disgustati i corpi abbandonati degli orfani contro i pilastri, addirittura commentando l’indecenza di questi ragazzini che si permettono di andare a morire davanti ai loro occhi. Ci ricorda qualcosa di attuale? Ma certo, ce lo ricorda così tanto, in quest’epoca di social network con adulti grassi, compiaciuti, meschini e grufolanti nei loro possessi che si divertono a trollare nei commenti delle foto di corpi affogati e straziati di migranti con battute di pessimo gusto.

È tutto vero, ti dici guardando il film. È tutto vero, ti rendi conto, osservando il modo in cui le persone vanno avanti, la città rinasce, mentre Seita e Setsuko deperiscono e muoiono di fame, sì, ma è fame di cibo e di un affetto che tutti si affrettano loro a negare. Non c’è redenzione, non c’è speranza in questo film o forse sì, per assurdo che possa sembrare. Nell’immagine sovrannaturale e dolcissima degli spettri di Seita e Setsuko che si addormentano guardando il panorama di una Kobe ormai ricostruita, capisci che non importa quanto sia sporco e cattivo il mondo, ci sono legami più forti di qualsiasi disperazione, che nemmeno l’orrore e la morte riescono a spezzare. Capisci che l’amore, al di là di ogni stupida retorica, è la forza più potente che possa muovere un essere umano, capace di rendere grandissimi anche due bambini orfani e sperduti in una miseria che non conosce pietà.

L’unico appunto, come sempre, resta quello: un film del genere non si meritava due miseri giorni di sosta in sala. Meritava di restare di più, meritava di essere guardato da più persone, perché sono quelle iniezioni di realismo e dolore concentrato che tutti dovrebbero provare sulla propria pelle. Perché una storia così bella merita di essere raccontata ancora e ancora e ancora, nonostante tutto il male dolcissimo e struggente che ti lascia dentro.

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