The Hunger Games – Il canto della rivolta 2 (2015)

Un giorno tutto questo dolore ci sarà utile?

The Hunger Games - Il canto della rivolta 2

Un giorno scriverò un piccolo trattato sulla mistica di avere come vicino di poltroncina al cinema un altro essere umano. Ventiquattro anni che vado al cinema e non ho mai trovato una persona che fosse meno che interessante a un palmo dal mio gomito, tanto per smentire quelli che sventolano la normalità come un dato diffuso e permanente.

Ma non è questo il giorno. Oggi posso solo dire che ieri, in quella sala del cinema, al mio fianco c’era una signora anziana che – poveretta! – aveva il respiro pesante di un orso grizzly, mentre mia sorella era affiancata da due giovani fan della saga che alla prima comparsa di Finnick hanno strillato: «Che carino!», sollevandoci dall’onere di formulare il nostro medesimo pensiero, ché siamo grandi e dobbiamo fingere di essere persone serie pure se poi ci infiliamo in una sala piena di bimbi a guardare “Minions”.

Ah ma io dovevo parlare di “The Hunger Games”.

E andiamo a incominciare!

Sopravvivere al lento decadimento della trama si può!

Io per “The Hunger Games” nutrivo grandi speranze, lo confesso. Dopo aver visto il primo film, comprai i libri in un’ondata di entusiasmo e mi scontrai con la dura realtà che il POV in prima persona e la letteratura Young Adult sono un combinato tossico per le mie arterie. C’era cattiva scrittura, in quei libri, e soprattutto cattiva trama appesantita da un desiderio perverso di bastonare il lettore e ficcargli giù per la gola il messaggio che il mondo è cattivo e non importa cosa farai, se sceglierai di lottare o di tirarti indietro, dovrai soffrire come un cane.

Sì ma, Collins, basta.

Il quarto capitolo di “The Hunger Games” si riconferma una gloriosa celebrazione dei lividi, del dolore spettacolarizzato, delle dipendenze, dei traumi, degli attacchi di panico, dei rapporti umani fragili, del “nessuno è al sicuro” e “tutti sono tuoi nemici”. Una gioia, alla fine, ma così tiepida, così impalpabile che puzza più di contentino che altro.

Eppure Francis Lawrence è riuscito a fare il miracolo. Di nuovo. Pur avendo in mano una sceneggiatura profondamente compromessa, è riuscito a tirarne fuori un film che non sarà il massimo dell’entusiasmo – almeno per chi ha letto i libri e si è già distrutto l’hype in anticipo – ma intrattiene. Non ho avuto voglia di tagliarmi le vene per tutto il film ma solo su determinate scene, melense, troppo gratuite, mal costruite, su cui Lawrence ben poco poteva fare, essendo quello il materiale a sua disposizione.

Gli attori, soprattutto, sono stati fantastici. Donald Sutherland era così convincente, affilato, spietato anche nell’interpretare un Presidente Snow ormai in decadenza incontrastabile, che finivi per fare il tifo per lui, che almeno una caratterizzazione ce l’aveva. Katniss è così tanto occasione sprecata che è inutile scriverci su altre parole ma meno male che c’è Jennifer Lawrence a salvare la giornata, perché la sua interpretazione è riuscita a entusiasmarmi lì dove il libro mi aveva fatto sbadigliare e basta.

Personaggi su personaggi sono stati liquidati in tutta fretta, al solo scopo di dimostrare che il mondo èbbrutto, ma per lo meno le scene di massq e il setting erano accettabili, rendevano l’idea, conferivano una terza dimensione a una storia troppo appiattita sulle pare mentali di una protagonista svuotata di alcun senso, al fine di essere trattata come un burattino dimostrativo dei messaggi educativi della Collins, per incidere davvero sull’andamento della trama.

Triangoli indebiti e personaggi che si insultano da soli

Lo dissi per “Crimson Peak” e lo ripeto anche per questo film: le vere perle di queste storie che ti lasciano a bocca asciutta sono quelle che trovi messe nella sceneggiatura involontariamente, come quando un personaggio avanza una critica e sembra che stia mostrando allo spettatore qual è il problema di base di tutto il film.

A un certo punto Snow dice: «Chi è Katniss Everdeen? Una ragazza un po’ brava con l’arco e le frecce, non una pensatrice né una leader… un volto pescato a caso fra la folla».

Ecco il peccato originario di “The Hunger Games”. Una protagonista scialba, che passa tre libri e quattro film a lamentarsi e a essere manipolata, salvo poi reagire con un plot twist, che ha ben poco materiale per sorprendere, in modo scomposto e pressoché organico a una realtà che non può cambiare. Una storia che denuncia i vizi del reality e della spettacolarizzazione moderna, che preferisce interessarsi alla storiella d’amore più che al dramma di ragazzini buttati ad uccidersi in una ricostruzione fantasiosa del labirinto di Cnosso (almeno è dalla storia di “Teseo e il Minotauro” che la Collins dice di aver tratto ispirazione), e poi, tanto per confermare ciò che denuncia, occupa metà della narrativa a mostrare i drammi amorosi di Katniss, divisa fra due bietoloni a cui la Collins ha provveduto a staccare via qualsiasi parvenza di umanità e libero arbitrio, per farne due marionette che si muovono bene o male al solo scopo di mostrarsi come partner papabili agli occhi della protagonista.

Perché fare il lavaggio del cervello a Peeta e trasformarlo in una macchina assassina-Katniss, cronicizzando il loro rapporto nella solita vecchia storia della donna-crocerossina™ che cura l’uomo-bestia-dentro™, quando il crocerossino era Peeta e ogni parvenza di originalità nell’evoluzione del loro rapporto era già stata segata via pagina dopo pagina? Perché rovinare il rapporto di amicizia fra Gale e Katniss, dimostrando per l’ennesima volta che uomo e donna non possono essere amici perché così fa comodo alla maggioranza pensare? Buttare sul fuoco dell’angst altro legname infiammabile? Ripetere allo strenuo che l’umanità è zozza e compromessa? Cattiva gestione del character development?

Tutte insieme, probabilmente.

The Hunger Games” si inserisce nel filone – in questi ultimi anni vincente – del gritty realism, quello che va oltre il verismo verghiano ma eliminando qualsiasi aspetto di denuncia sociale e spostandosi in ambiti in cui la fantasia dovrebbe farla da padrone, per raccontare al suo lettore le cosiddette storie “verosimili”, dove la necessità di interporre degli ostacoli sul percorso del protagonista si trasforma in un’esigenza così esasperata da superare persino la spinta della trama verso un finale.

Non c’è contropartita sufficiente a questa esasperazione della sofferenza, ce n’è troppa, si finisce per chiedersi quale sia il senso di tante tribolazioni di fronte a un finale che è “buono”, sì, ma non ripaga le aspettative emotive dello spettatore/lettore con un trionfo degno di nota, un sentimento di soddisfazione che ti faccia capire che tutti questi soldi spesi e queste ore buttate ad assistere alla tragedia non sono andati perduti invano.

E il film si sforza di spiegartela meglio, quella scelta finale di Katniss, ne capisci anche il senso ma tutto si perde nella sua autocommiserazione, nella constatazione amara e in parte falsa che il mondo continua ad andare avanti come prima. Se la narrativa stessa si impegna a demolire i rari sforzi della sua protagonista, a che pro scrivere un libro? Se volevo il POV in prima persona su una rivoluzione fallita raccontata attraverso una prospettiva cruda e graffiante non mi rivolgevo a un film che con eccessivo pudore lascia le morti fuori dall’inquadratura per concentrarsi sui lamenti di chi si è salvato assolutamente a caso.

Leggevo/guardavo “Fight Club”, dove un riscatto finale c’è, dove una contropartita reale e profonda alle tribolazioni del protagonista ci viene offerta e dove, davvero, il finale non fa sconti a nessuno ma soddisfa la lettura.

E quindi…

Questo film lo consiglio o no? Lo consiglio a chi ha seguito tutta la saga, perché alla fine è l’ovvio completamento di una vicenda che non poteva restare monca.

Non si stupissero, però, la Collins e i produttori di una così tiepida accoglienza da parte del pubblico. Se togli lo slancio ideale dalla lotta del protagonista, se mescoli maldestramente verismo esasperato e fantascienza avventurosa per adolescenti, se vuoi parlare di buoni sentimenti mentre convinci lo spettatore che non c’è nulla di davvero sacro per cui combattere; se insomma vuoi tenere il piede in due scarpe e accontentare la voglia di cinismo scomodo e il racconto da romanzone di formazione, finisci per non trasmettere null’altro che emozioni sbiadite e confuse.

Da vedere solo se siete fan, altrimenti aspettate l’home video, non vi perderete nulla.

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