Fenomenologia di un successo sprecato

Spectre - Locandina

Che brutto, brutto, brutto, entrare al cinema sapendo già di venire delusi e vedere confermati i propri peggiori timori a mano a mano che i minuti passano.

Vorrei che un personaggio avesse pronunciato la solita frase auto-accusatoria da poter ritorcere contro una sceneggiatura debole, ma a questo giro i produttori neanche questa gioia mi hanno dato, quindi devo fare tutto da sola.

“Spectre” è una rivisitazione fighetta e pretenziosa dei primissimi capitoli del franchise di James Bond. Se mi avessero detto che era il remake di “Dottor No” o simili, avrei risposto: «Davvero carino, un esperimento convincente, mi sono molto divertita. La scena sul treno era ironica, vero?!». Invece sono stata catapultata in un brutto film con Roger Moore che pretendeva di concludere la saga che ha ospitato un capolavoro (almeno per il genere spionistico e per il modo in cui ha ribaltato certe premesse dei vecchi James Bond) ricadendo in una mediocrità così pesante che mi è sceso il latte alle ginocchia.

Ma andiamo per ordine.

Oh-oh, mi è semblato di avele un dejà-vu

Nonostante il film si proponga come un omaggio all’estetica dei vecchi James Bond, i “mitici” episodi interpretati da Sean Connery, che un suo stile molto ben definito ha conferito alla spia più famosa del mondo, “Spectre” avrebbe dovuto essere prima di tutto il capitolo di chiusura della saga in cui è Daniel Craig a essere il protagonista. L’omaggio, così, diventa invadente e si appropria della sceneggiatura e di parti consistenti della trama, lasciando lo spettatore – abituato alle vette di “Skyfall” – con ben più che l’amaro in bocca.

Due esempi, apparentemente infimi, su tutti? La sequenza gunbarrel viene posta nuovamente all’inizio del film – dopo essere stata così efficacemente integrata in modo diverso nei tre capitoli precedenti – e le silhouette femminili ammiccanti tornano a popolare, prepotenti e insistenti, la sigla iniziale, dando a “Writing’s on the walls” di Sam Smith un sapore da filmaccione trash con Roger Moore che speravo fosse stato archiviato.

Tutto “Spectre” si trasforma presto in un rigurgito di nostalgie passatissime, che sprofondano nuovamente la Bond Girl di turno nel ruolo di classica bionda spersa in cerca della salvezza dell’uomo forte. Così come stucchevole, affrettato e inverosimile è il rapporto che James e Madeleine – la Bond girl interpretata da Léa Seydoux – sono costretti a intrecciare nello spazio risicato della seconda metà del film. Non c’è battuta che non si scambino che non sia talmente prevedibile da poter essere agevolmente anticipata dallo spettator in sala. Non c’è costruzione ragionata del loro rapporto che faccia affezionare chi guarda: semplicemente si assiste a situazioni che devono accadere, come la ridicola scena di sesso sul treno che, complici gli interni retrò, sembra un’esatta riproposizione da scene a-là “La spia che venne dal freddo”.

Persino gli antagonisti puzzano di già visto, di collage mal assortito da tutti i titoli del franchise che vi possano venire in mente; come Hinx, corpulento assassino professionista interpretato da Dave Bautista, che pare la controfigura budspenceriana dell’indimenticabile (almeno per me, che in “Operazione Moonraker” mi sono dovuta sorbire la scena improponibile dell’infatuazione per la bella tirolese, con tanto di accompagnamento musicale in sottofondo del “Romeo e Giulietta” di Tchaikovsky) Squalo. O come lo stesso Ernst Stavro Blofeld, di cui apprezzo soprattutto il gatto, ma non il background né l’interpretazione – affilata, sì, ma così scialba e poco coinvolgente – di Christoph Waltz. L’ennesimo megalomane che fa il cattivo perché sì e perché è un mitomane assurdo che odia la nostra spia preferita.

E poi c’è questa “Spectre”, così poco spettrale, così banalmente ossessionata dal morbo del “Grande Fratello” – grande ossessione di questo periodo storico, quanto lo erano le bombe nucleari durante la Guerra Fredda – così scontata che il gatto bianco di Blofeld può anche essere un omaggio divertente ma queste riunioni piene di cattivoni che parlano tedesco o sono trafficanti ugandesi con l’accento francese (ancora?) sembrano solo la versione riaggiornata e patinata dello studiolo di legno in cui il numero uno della Spectre, opportunamente ripreso di spalle, decretava la morte dei membri indegni.

Marce indietro che lasciano l’amaro in bocca

Il punto è che dopo “Skyfall” l’aspettativa non poteva non essere altissima. Il merito più grande della saga interpretata da Daniel Craig è stato quello di demolire un mito, a partire dalla scelta di un attore come Daniel Craig – biondissimo, dagli occhi azzurri e dal profilo decisamente vichingo – per interpretare un James Bond che fino a quel momento aveva avuto delle fattezze sempre molto simili a quelle di Sean Connery.

Ma al di là dell’aspetto esteriore, la serie con Daniel Craig aveva fustigato le intemperanze da dongiovanni della spia inglese, mostrando i contraccolpi negativi sulle donne che Bond usava per venire a conoscenza di informazioni di vitale importanza per la missione; aveva dimostrato che James Bond non poteva sgusciare via impunemente da ogni azione spericolata, cavandosela con la scusa di aver causato danni immani per “salvare il mondo”; si era assunta, nella persona della M di Judi Dench, il compito di costringere James Bond a crescere e capire che la licenza di uccidere è anche libero arbitrio, capacità di decidere di non uccidere, quando – più che atto di misericordia – risparmiare il nemico diventa importantissimo per costringerlo a parlare.

E proprio da M, inaspettata “Bond woman” che in “Skyfall” accompagna Bond come la madre che ha perso troppo presto, che gli muore fra le braccia affermando «allora qualcosa di buono l’ho fatto», bisognava ripartire; da quell’estremo atto di decostruzione attraverso cui Mendes metteva James Bond di fronte alla prima donna che non potesse usare come oggetto – né di informazioni né di piacere – ma con cui doveva confrontarsi alla pari, ancor più della bella Vesper, che lo aveva infiammato d’amore e instradato al lavoro di spia, e di Camille, che era stata più una partner in crime che un vero e proprio interesse amoroso.

Con la Madeleine di Léa Seydoux ritorna lo stereotipo della damigella in difficoltà, della donna da salvare e che ti salva, la Manic Pixie Dream Girl che eleva James Bond dalle macerie del suo ego infranto e lo purifica dalla sua carriera di omicida e dongiovanni, costringendolo a “mettere la testa a posto”.

Che tristezza.

Onestamente dopo “Skyfall” ci si aspettava un salto di decostruzione ulteriore, che si abbandonassero queste ipocrisie un po’ borghesi, secondo cui chiunque non vede l’ora di abbandonare l’adrenalina della vita da spia e farsi una famiglia. E invece non era questo che ci si aspettava da Sam Mendes. Non era questo “ritorno alle origini” che desideravo da “Spectre” ma un nuovo e più profondo ribaltamento, che si attaccasse anche a un’entità minacciosa come la Spectre e che rivoluzionasse il concetto della Bond girl, magari individuando in M, Q e Moneypenny quella famiglia di cui Bond ha bisogno, ben più di una donna petulante che lo spinga a rinunciare al suo lavoro, all’adrenalina e al desiderio di avventura che sempre gli fornisce.

Spectre stessa si è rivelata, oltre che la solita brutta e cattiva organizzazione di reietti da cliché, una delusione per i motivi che hanno portato il suo fondatore a crearla. Che Blofeld sia stato spinto a diventare cattivo per gelosia nei confronti di un Bond che, come figlio adottivo, aveva avuto la colpa di “monopolizzare l’attenzione” di suo padre è un motivo arraffazzonato e un salto logico poco convincente. Nel tentativo di ricondurre ogni più piccolo filo di trama a James Bond, di fare della spia l’Alfa e l’Omega di ogni sua avventura, pare che Sam Mendes e sceneggiatori al seguito si siano un po’ troppo fatti prendere la mano.

Pecca così di poca originalità, “Spectre”. Pecca di superficialità, mancanza di verosimiglianza. Pecca soprattutto di incapacità di portare il personaggio di Bond, pienamente messo in crisi in “Skyfall” a una maturazione netta. Quella scena sul ponte in cui James Bond decide di graziare Blofeld avrebbe avuto ben altro senso se il nuovo M, memore degli insegnamenti che la vecchia M aveva impartito alla spia, avesse redarguito Bond circa l’opportunità di uccidere senza alcuna pietà, come un serial killer più che un agente segreto che cerca di stabilizzare la pace e proteggere le persone (o almeno il governo britannico). Che l’unica motivazione che spinga James Bond a mettere il suo lavoro durissimo e sfiancante ma esaltante in discussione sia la botta d’adrenalina altrettanto forte ma effimera di un innamoramento poco giustificato e molto forzato dalle esigenze di trama è un pretesto deludente.

C’era ancora molto materiale fertile in cui scavare ma sembra quasi che gli sceneggiatori ne siano rimasti spaventati o forse l’esigenza di chiudere la serie – rapidamente e male – l’ha avuta vinta su tutto e così ti ritrovi davanti un prodotto sciatto e mal raffazzonato, nonostante le premesse iniziali non fossero affatto male.

E quindi?

E quindi è difficile consigliare “Spectre” pure a chi ha visto i primi tre film e vuole portare a casa tutta la storia. Vedi Blofeld e rimpiangi il tormentato, folle ed esagerato Raoul Silva di Javier Bardem; vedi Madeleine e rimpiangi la dolente e fatale Vesper Lynd della Green; vedi la Spectre e ti chiedi perché un film che è tutto intitolato a lei ti abbia portato così poco nei meandri di un’organizzazione che poteva avere una doppia faccia, poteva essere ben più che la solita tavolata di cattivi da operetta; vedi Monica Bellucci e ti domandi chi mai abbia avuto la balzana idea di mettere a recitare quella che è una modella con l’espressività di un tonno surgelato.

Insomma, il retrogusto amaro c’è tutto e anche una certa noia. Un simile lavoro di distruzione del personaggio per riportare il franchise sui giusti binari te lo saresti aspettato dal primo capitolo della nuova saga, con nuovi attori, nuovo regista, nuovi sceneggiatori, non da un team forte del successo di “Skyfall”, che poteva permettersi di osare ancora.

Non lo consiglio al cinema, perché val la pena di passare il messaggio ai produttori che la qualità conta, che alla fine si perdono più soldi nel tentativo di ammiccare al grande pubblico che a mantenere alti gli standard per fidelizzare una minoranza che farà abbastanza rumore da portarsi dietro anche gli amici.

Risparmiate i soldi per qualche altro film, andatevi a vedere “Peanuts & Friends”, se volete svagarvi la sera dopo una giornata faticosa.

Per “Spectre” basta l’home video.

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