La dura vita del prigioniero di guerra

La settimana scorsa – e questo è di dominio pubblico, ormai – è morto David Bowie. Artista geniale e a dir poco eclettico, non aveva soltanto fatto musica, nella sua lunghissima carriera, ma anche interpretato parti consistenti in diversi film. Uno di questi Rai2 mi ha fatto il grande piacere di passarlo Lunedì scorso in seconda serata ed è così che ho conosciuto “Furyo” o, come da titolo originale, “Merry Christmas, Mr Lawrence”.

L’argomento di questo film, il cui titolo italiano utilizza la parola giapponese che sta per “prigioniero di guerra” parla – ça va sans dire – della difficile vita dei prigionieri di guerra inglesi in un campo di prigionia giapponese a Giava, durante la Seconda Guerra Mondiale… e non solo. Tratto da un romanzo di Laurens van der Post, “The Seed and the Sower” – composto di tre racconti distinti tutti incentrati sulla vita dei soldati nei campi di prigionia – il film di Nagisa Oshima del 1983 non si limita ad affrontare le asprezze della vita dei prigioniero in una simile condizione ma si occupa, in maniera nient’affatto superficiale, di toccare tutt’altro che incidentalmente il tema del difficile incontro e scontro fra due culture distanti fra loro come quella giapponese e quella inglese, nonché il tabù dell’omosessualità, malvista e avversata in entrambe le fazioni.

La storia

La trama ruota principalmente attorno a quattro personaggi e ai loro rapporti incrociati: il Tenente Colonnello John Lawrence e il Maggiore Jack Celliers da un lato; il sergente Gengo Hara e il Capitano Yonoi dall’altra. La storia inizia quando Lawrence, che è incaricato di fare da mediatore fra i prigionieri inglesi e i carcerieri giapponesi in virtù della sua conoscenza della lingua e cultura giapponese, data la sua permanenza a Tokyo anche prima dello scoppio della guerra, viene chiamato dal sergente Hara ad assistere alla risoluzione di uno spiacevole “incidente”, che ha coinvolto una guardia coreana sorpresa ad abusare di un soldato olandese detenuto in cella per un furto.

L’arrivo del capitano Yonoi, che porrà prematuramente fine al primo fra i tanti scontri – morali ma anche fisici – fra Lawrence e Hara, sposta invece l’attenzione sul suo viaggio per assistere alla possibile condanna a morte di un maggiore neozelandese, Jack Celliers, accusato di essersi infiltrato sotto falso nome per sollevare gli indigeni contro l’esercito giapponese. La sua condanna sarà commutata in una pena detentiva proprio nel campo di prigionia gestito da Yonoi e da questo momento in poi la trama si dipanerà inesorabilmente verso un finale che non è esattamente dei più allegri.

Celliers porterà lo scompiglio non soltanto nel campo, sfidando costantemente l’autorità dei suoi carcerieri, in barba a ogni tentativo di Lawrence di fare da ago della bilancia e cercare sempre di mantenere una certa, precaria stabilità per evitare ripercussioni eccessivamente feroci sui suoi commilitoni. Yonoi sarà profondamente turbato nel suo spirito dalla presenza di quest’uomo che lo costringe a rimettere in discussione il suo stesso onore, perché l’attrazione che prova nei suoi riguardi è troppo forte per essere mascherata persino nei riguardi dei suoi sottoposti. Sarà una passione che non potrà mai sbocciare ma che renderà la tensione all’interno del campo di prigionia insopportabile finché, stanco dei soprusi a cui Yonoi costringe i soldati inglesi – quasi per purificarsi in qualche modo dei sentimenti che prova – Celliers finirà per sacrificarsi spontaneamente, in un ultimo e dissacrante atto di sfida davanti a tutti i soldati riuniti.

Alla morte di Celliers segue un salto temporale di quattro anni, che rivede in scena soltanto due dei protagonisti, Lawrence e Hara, di nuovo impegnati a confrontarsi sulla distanza fra la loro concezione della guerra e dell’onore ma in modo decisamente più pacato rispetto alle premesse del film, rassegnato, viste le posizioni invertite che ora occupano – Lawrence dalla parte e dei vincitori, Hara un prigioniero sconfitto che aspetta l’esecuzione. Fino all’ultimo secondo non ci sono davvero risposte all’insensata ondata di violenza e abbrutimento che porta con sé la guerra, solo domande e amare constatazioni, che dilavano il film da qualsiasi tentativo di moralizzare lo spettatore o individuare dei “buoni” e dei “cattivi” in una storia fin troppo reale che conta solo tantissimi perdenti.

Lawrence e Hara vs. Celliers e Yonoi

A onore di questo film va prima di tutto detto che per quanto crudo e realistico possa essere nel mostrare le sevizie a cui i prigionieri vengono sottoposti, le loro durissime condizioni all’interno del campo, nel non risparmiare inquadrature sui malati e i feriti in balia dei capricci dei loro carnefici, nel non essere gentile né indulgente sui comportamenti inflessibili ed esasperati dei carcerieri giapponesi, non c’è mai morbosità.

Non potrò mai ripetere a sufficienza quanto ho apprezzato la scelta di non indugiare in maniera ossessiva e spettacolarizzata sulle punizioni fisiche, che già suonano dolorose e umilianti mostrate come sono, nell’infierire di guardie armate e in soprannumero su singoli prigionieri che si sono macchiati del semplice peccato di esprimere un’opinione. La realtà degli abusi sui soldati, l’ossessione malata di Yonoi per Celliers, le torture, vengono raccontate, richiamate ma mai sbattute in faccia allo spettatore in quel modo volgare che rischierebbe soltanto di distrarre la visione e attaccarsi alla pancia dello spettatore, piuttosto che mantenerlo concentrato sui temi reali della storia.

A questo proposito è interessante il modo in cui i diversi temi affrontati si dipanano sullo schermo, affiorando sempre dal confronto, una coppia alla volta, dei quattro protagonisti della vicenda. Se così da una parte lo scontro/incontro di civiltà viene primariamente rappresentato dal confronto diretto, costante, aspro ma anche “amicale” fra Hara e Lawrence, mentre il tabù dell’omosessualità è tutto mostrato attraverso la lotta di sguardi, più che di parole, e lo scambio di provocazioni e reazioni fra Celliers e Yonoi; la distanza abissale che sembra separare occidentali e giapponesi di fronte a concetti basilari come il rispetto, l’onore, la concezione stessa della guerra, è tutta riassunta nell’incomunicabilità di fondo che regna sovrana nelle discussioni fra Lawrence e Yonoi.

Forse è solo il rapporto fra Hara e Celliers a essere marginale e quasi inesplorato dalla trama ma è facile notare che Hara finisca per vedere in Lawrence l’unico referente occidentale di cui potersi quasi fidare – forse perché è l’unico a parlare la sua lingua – tanto che Celliers ai suoi occhi sembra sempre essere un’appendice inevitabile di Lawrence o quello spirito maligno che accompagna come un’ombra il suo sempre più ossessionato capitano.

Resta il fatto che i due rapporti più forti, quelli attorno a cui la trama ruota e da cui si scatenano a cascata avvenimenti e riflessioni, sono quelli fra Hara e Lawrence e fra Celliers e Yonoi. La strana e inusuale amicizia che si crea fra il carceriere e l’unico fra tutti i prigionieri inglesi che ancora cerca un contatto con i giapponesi e la loro cultura – nonostante la guerra e i soprusi subiti nel campo – fa scaturire riflessioni costanti su come l’incapacità di capirsi generi ancora più conflitti e tensioni, eppure il tentativo mai portato a termine di provare a trovare un punto d’incontro aleggia fra i due fino all’ultima inquadratura.

Dall’altro lato i devastanti effetti di un codice d’onore rigidissimo, la generale considerazione negativa dell’omosessualità (Lawrence cercherà di spiegare ad Hara che a volte, fra soldati, un certo tipo di amicizia diventa inevitabile ma questo non li rende automaticamente omosessuali), una concezione superomistica dell’uomo nobilitato dalla guerra, il desiderio costante di purificarsi da qualsiasi impurità, tutto questo si assommano nell’impossibilità per Yonoi di avere un rapporto diretto e, se non sano, per lo meno normalizzato con Celliers. Fin dal primo sguardo sconvolto che il capitano posa sul maggiore, al loro primo incontro, non c’è momento in cui i sentimenti di Yonoi non marciscano in un’ossessione che si fa più indomabile e palese a mano a mano che questi cerca di reprimerla e soffocarla a ogni costo. Se poi il capitano giapponese è tormentato dal suo codice d’onore, Celliers – e ce lo mostra il racconto del suo passato che fa a Lawrence, ché anche il suo rapporto con il commilitone è uno snodo focale di tutta la trama – è dilaniato dai rimorsi, si definisce “scontento di sé”, si odia per il modo in cui ha trattato suo fratello, per non aver saputo chiedere il suo perdono, quando ancora ne aveva la possibilità.

L’incomunicabilità, forse, fra questi due uomini disperatamente accecati dai loro demoni personali può portare solo al tragico finale che è il loro ultimo confronto, anzi, i loro ultimi due confronti, gli unici due in cui ci sia un contatto reale, per quanto fugace fra i due. Se da un lato, infatti, il bacio sulla guancia che Celliers si scambia con Yonoi davanti a una platea attonita di prigionieri e soldati riuniti, è un tale smacco al suo onore da far svenire Yonoi di rabbia e impotenza, di fronte alla debolezza che lo coglie nel non poter uccidere lui stesso l’oggetto del suo desiderio e contemporaneamente l’uomo che un tale affronto gli ha fatto; la scena in cui Yonoi si congeda da un Celliers ormai morente è contemporaneamente struggente e agghiacciante, nel modo in cui dimostra quanto viscerale e distorto è diventato il sentimento che il capitano ha finito per nutrire per lui.

David Bowie

E un paragrafetto a parte si meritava David Bowie. Perché, sì, il protagonista-osservatore di questa storia è Lawrence ma il personaggio che più spicca fra tutti si rivela Jack Celliers, non soltanto per effetto del suo ruolo dirompente nelle vicende del campo.

C’è da dire che David Bowie ci mette del suo, nell’interpretare in maniera perfetta la parte del soldato che rompe ogni schema, sfacciato e sbruffone, sempre pronto a sfidare i suoi carcerieri – quasi se le chiamasse, le loro reazioni violente.

Io prima di questo film sapevo a stento che avesse recitato così tante volte e con risultati così apprezzabili. I primi piani sugli sguardi e sulle espressioni di Bowie sono uno spettacolo e qui non è solo la fangirl che parla. Gli attori coinvolti in questo film sono tutti bravi, i quattro protagonisti non potevano avere volti migliori, ma sarei disonesta se negassi che il suo personaggio e il suo modo di interpretarlo non mi abbiano colpito. Dire che è magnetico è forse scontato ma è abbastanza vicino alla verità.

Se così questo è un film che consiglierei a prescindere, per l’intelligenza con cui tratta i temi di cui si fa carico, per la regia, per la recitazione, per la sceneggiatura, per tutto, David Bowie è quel plusvalore da non ignorare assolutamente. Va visto? Sì, sono due ore che meritano e non fatevi spaventare dai dialoghi in giapponese sottotitolati che appaiono di tanto in tanto, conferiscono ancora più verosimiglianza a una storia che è bella, pure se inevitabilmente investita di un’amarezza e un senso di impotenza che la rendono ancora più reale.

Non un filmetto scontato sulla forza dei buoni sentimenti, insomma.

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