Lo chiamavano Jeeg Robot (2016)

E mo’ so’ cazzi per tutti

Lo chiamavano Jeeg Robot - Locandina

Ci sono momenti in cui ti trovi davanti a un film e non sai cosa dire. Ti senti sopraffatto da troppe sensazioni tutte insieme e la confusione ti attanaglia; se dovessi spiegare a un amico che cosa hai visto, non sapresti semplicemente da dove cominciare.

Se avessi recensito “Lo chiamavano Jeeg Robot” ieri sera, ne avrei dato un giudizio estremamente negativo, perché lo trovavo un ottimo film ma non si era rivelato quello che mi aspettavo, quello che credevo di trovarmi davanti andando a vedere un film di supereroi, abituata a un certo modo di intenderli, un modo molto americano, molto patinato e molto lontano dal mio vissuto.

Una notte di sonno dopo, continuo a pensare che si tratti di un ottimo film, ma il giudizio personale non è più negativo. “Lo chiamavano Jeeg Robot” è un film che mi ha colpito, profondamente, un ottimo esperimento di cinema italiano e merita un momento di riflessione in più.

Jeeg Robot abita a Tor Bella Monaca

Enzo Ceccotti è un ladruncolo, che abita in un appartamento scalcagnato in un brutto palazzone a Tor Bella Monaca, campa di rapine, vive solo e soprattutto isolato da tutti, in uno stato di abbrutimento in cui tutta la sua vita ruota solo attorno ai vasetti di yogurt e ai dvd porno – che consuma in entrambi i casi in modo compulsivo. Enzo non tiene a nient’altro che a se stesso e vive sprofondato in quello stato di apatia tipico di chi non vede alcuna via d’uscita a una situazione di profonda disperazione.

Alessia è la figlia di Sergio, un ladro anche lui, ed è una ragazza con profondi problemi psichici e l’atteggiamento di una ragazzina all’apparenza spensierata e un po’ svanita, che vive soltanto dei dvd di “Jeeg Robot d’Acciaio” da cui non si separa mai e che diventano il filtro attraverso cui legge la realtà squallida, fatta di abusi e trascuratezze, in cui vive.

Fabio Cannizzaro detto “Zingaro” è il capo di un piccolo manipolo di malviventi con ispirazioni da cantante mancato, ossessionato dall’idea di fare il colpaccio della vita al punto da mettere ripetutamente nei guai i suoi stessi scagnozzi e da stringere un patto con un gruppo di camorristi, capitanati dalla fredda e pratica Nunzia, per acquistare un carico di droga che dovrà fruttargli quei soldi necessari a fare il salto di qualità. Fabio è crudele ai limiti della stupidità, istrionico ed esagerato e farebbe carte false pur di lasciare finalmente il segno e abbandonare una vita che gli sta stretta.

Enzo, Alessia e Fabio sono tre outsider, tre emarginati abbrutiti da una vita schifosa, ed è il momento in cui Enzo, per sfuggire ai poliziotti, fa un tuffo nel Tevere e finisce intrappolato in un barile di materiale radioattivo che le vite di tutti e tre cambiano. Perché Enzo diventa un supereroe, perché Alessia ha bisogno di un supereroe, perché Fabio vuole essere un supereroe (o un supercriminale, a ben vedere, uno di quelli alla Joker, che fanno il botto in ogni senso possibile).

Il tutto si svolge sullo sfondo di un contesto politico e sociale molto realistico, una Roma stretta nella morsa di attentati terroristici che colpiscono luoghi come l’Altare della Patria o la Stazione Ostiense, attribuiti di volta in volta all’estrema destra e all’estrema sinistra, ma in realtà tutti riconducibili a quegli stessi camorristi di Nunzia che ricattano lo Stato, in un revival di un passato del nostro Paese fin troppo prossimo a noi, che siamo adulti nel 2016.

La rabbia e la voglia di riscatto dei dimenticati di oggi

“Lo chiamavano Jeeg Robot” ha un’impronta così fortemente neorealista da lasciare spiazzato uno spettatore poco informato e soprattutto è così profondo e crudo che di scanzonato non ha nulla, nonostante il titolo potrebbe lasciar pensare diversamente.

“Lo chiamavano Jeeg Robot” è recitato da dio, perché non puoi dire nient’altro di un Claudio Santamaria che interpreta con intensità questo ragazzone troppo chiuso in se stesso, brutale e animalesco nella sua solitudine e nella sua incapacità di comunicare con gli altri e di capire fino in fondo i sentimenti che prova, deciso a fregarsene solo di se stesso eppure abbastanza permeabile da lasciarsi attraversare e cambiare dalle parole di Alessia – che sembra la più svanita di tutti ma è l’unica a comprendere fino in fondo che se la vita ti ha dato una chance, non la puoi sprecare usando la tua forza sovrumana per staccare bancomat dal muro. Così come agghiacciante nel rendere una ragazza sporcata e maltrattata dalla vita è Ilenia Pastorelli, che Alessia la interpreta mettendoci l’anima e non è lì sullo schermo solo per fare la parte della bella damigella in pericolo. E c’è poco da contestare a Luca Marinelli che a Fabio, il cattivo di turno, dà un’interpretazione follemente magistrale, pazzo ed esasperato come si conviene a un mitomane assassino capace di far fuori uno scagnozzo ribelle a colpi di iPhone.

“Lo chiamavano Jeeg Robot” è un film che non lascia nulla all’immaginazione, calca tanto – a tratti davvero troppo – sulla violenza e sull’abbrutimento di situazioni così reali che ti incazzi. Ti incazzi tanto più se vedi il peggio dei tuoi luoghi d’origine della tua città d’adozione sbattuti tutti sullo schermo. Vedi la disperazione, una disperazione così profonda e senza uscita che nemmeno avere superpoteri basta ad aggiustare tutto, anzi.

Questa non è la New York di Peter Parker, questa – al netto dei superpoteri da radiazioni – è l’Italia, quella vera, quel sottobosco di illegalità, criminalità e vite devastate che esiste davvero appena fuori dal margine tranquillo delle nostre vite quotidiane.

“Lo chiamavano Jeeg Robot” non è un film all’americana, una grande saga epica di sentimenti nobili di eroi puri – modelli ideali che con gli esseri umani veri hanno poco a che fare – che si fanno divinità di una nuova liturgia contemporanea molto pop. È neorealismo, questo, da pugno nello stomaco. È come guardare una puntata di “Gomorra”.

E sì che il riscatto c’è, il salto di qualità ideale e interiore, ed è tutto lungamente elaborato e faticosamente portato avanti senza buonismi, sbattuto in faccia a costo di una tragedia che a Enzo porta via pure l’unica cosa bella che avesse mai trovato. Però la realtà attorno resta verissima, una realtà più difficile da sconfiggere di qualsiasi super-cattivo che cade in un barile e diventa tanto forte quanto lo sei tu.

E quindi?

E quindi “Lo chiamavano Jeeg Robot” mi ha colpito e sconvolto, perché non era quello che mi aspettavo. Perché non è questo il mondo dei supereroi a cui siamo abituati. Perché ha avuto il merito di dimostrare che in Italia le storie di supereroi le sappiamo raccontare, quando parliamo di noi e non facciamo il verso al cinema americano.

Ha dimostrato anche che non è vero che i supereroi sono tutti di destra, dipende da come li racconti, dipende se decidi di trattarli come icone sacre che proteggono il sistema e devono educare la massa. Oppure se decidi che “acquisire i superpoteri” è solo una scusa per parlare d’altro, per ricordarti di raccontare la storia di esseri umani veri, palpitanti, vivi e sporchissimi, pieni di difetti, intrappolati in una realtà problematica da cui la fantasia sembra essere l’unico mezzo per scappare (vedi Alessia che si rifugia nei suoi dvd di “Jeeg Robot d’Acciaio” e si rifiuta di guardare il mondo che la circonda per quello che è).

È stata una visione pesante, lo confesso. Per nulla conciliante. Non sono riuscita a riprendere fiato fino alla fine del film. Sono uscita dalla sala spaesata ma a questo punto sbaglierei se dicessi che questo film non meritava. È la riprova che anche una storia con elementi “fantastici” può parlare di argomenti seri, “da adulti”, che le storie di supereroi non sono solo storie didascaliche per bambini, che si può fare del buon cinema anche parlando di un tizio super-forte che sradica bancomat. E anzi, lodo ancora una volta di più l’intelligenza con cui gli autori hanno saputo mescolare la presenza di un supereroe/supercriminale con un contesto in cui i social network la fanno da padrone e allora via ai video su Youtube e a Jeeg Robot che diventa un’icona, al punto da comparire come un personaggi di Banksy sui muri della città, col cappuccio della sua felpa calata sugli occhi e un bancomat in spalla.

È un film che merita molto e non va preso sottogamba ma guardato con attenzione, è una visione che lascia svuotati e con l’amaro in bocca, spaesati e disorientati – non certo con quel trionfale senso di giustizia comminata al Male che ti si appoggia sulle spalle quando vedi Iron Man ricacciare indietro orde di alieni naturalmente brutti e naturalmente cattivi.

Ed è meglio così.

“Lo chiamavano Jeeg Robot” merita di essere visto e questo è il tipo di cinema italiano che merita di essere incoraggiato, perché è un’opera prima davvero sporca, brutta e bella insieme, ma soprattutto incredibilmente realistica e sentita, piena di emozioni che chiedono il loro tempo, dopo, per decantare.

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