The Young Pope, iperbole di un Papa senza radici

The Young Pope

Quando ti approcci a una serie-tv dai per scontata la presenza di certe convenzioni di genere, dei limiti che ingabbiano le puntate in inferni autoconclusivi, di cliché appositamente inseriti per mantenere alta l’attenzione del pubblico, anche a costo di sacrificare pezzi di trama e svolte diverse per il carattere di alcuni personaggi.

Quando però ti trovi davanti a un’opera di un regista come Sorrentino, ti aspetti automaticamente qualcosa di diverso. Non ci saranno discorsi autoconsolatori a coccolare la tua mente stanca di spettatore, che si è trascinato fino al venerdì sera per atterrare sul divano di peso; non ci saranno risoluzioni di trama semplici e piane, né quel ritmo automatico che impila le inquadrature una dietro l’altra, in una produzione in serie che rende inevitabilmente tutte le serie tv troppo uguali per dare più di una sensazione di dejà-vu.

Sorrentino se ne frega un po’ di tutto e non fa una serie-tv. Fa un film a capitoli: il capitolo sull’elezione del Papa, il capitolo sui rapporti fra lo Stato e la Chiesa, il capitolo sulla presenza della pedofilia nel mondo ecclesiastico, il capitolo sul rapporto fra l’uomo contemporaneo e la dimensione religiosa e via discorrendo. Ogni capitolo, però, non è un unicum a sé stante, è parte di un flusso incostante di squarci di vita che si susseguono l’uno dopo l’altro, apparentemente senza trama, sostanzialmente un arazzo di tanti pezzi diversi che trovano il modo di combaciare fra loro e raccontarti una storia.

Perché hanno un unico motivo portante a collegarli e quel motivo, in questo caso, è la personalità contraddittoria e straordinariamente ricca di Lenny Belardo.

The Young Pope è una serie che potrebbe essere raccontata per sfumature umorali, di colore e soprattutto di musica, perché che sia cinema o sia televisione, Sorrentino ti coinvolge in modo totale: musica, colori, movimento, dialoghi, concatenazione degli eventi, tutto è orchestrato per offrire una visione che salta fuori dallo schermo piatto e diventa davvero tridimensionale. E quella stessa tridimensionalità la si avverte nel modo in cui la trama e soprattutto la caratterizzazione dei personaggi si dispiega davanti agli occhi.

C’è una freddezza affilata nei primissimi due episodi della serie, un distacco algido e arrogante che fa bene il paio con la prima impressione di questo Papa troppo giovane e troppo inesperto delle cose del mondo; si tratta di un sarcasmo fatto di chiaroscuri abbaglianti che potrebbe ingannare lo spettatore, troppo abituato a vedersi raccontare la parabola dell’uomo solo al comando, senza altro amore che quello per il potere. È un’impressione che comincia a vacillare presto, anche mentre si colora dell’oro degli sfarzosi paramenti papali di cui Lenny ama rivestirsi con grande profusione di mezzi. Dall’altra parte c’è un calore che si insinua sottile, come un raggio di sole in una stanza buia, nei toni rotondi delle arance con cui Pio XIII ama giocare mentre si apre al suo confidente preferito, il cardinale Gutierrez, su uno scorcio malinconico di una gioventù che non può tornare.

E poi, ancora, Sorrentino ti immerge nei colori accesissimi delle tronfie dichiarazioni papali degli episodi centrali. Tutto ciò che Pio XII desidera è avere una Chiesa fatta di fedeli innamorati oltre il limite dell’adorazione, disposti a dare se stessi con lo stesso estremismo con cui lui ha deciso di dedicare tutta la sua vita a un’unica missione: non quella, banale, di avere il potere ma quella di ritrovare le sue radici. È lì che Sorrentino ti sorprende, evitando completamente la strada dei complotti a-là “Games of Thrones” o “House of Cards”, rifiutando la retorica del “siamo tutti sporchi e meschini”, per toccare un tema caro alle sue opere: quello delle fragilità umane che rendono il suo Papa molto più del simulacro bidimensionale oggetto di una strombazzata agiografia; e molto, molto più che la caricatura dell’ennesimo uomo corrotto affamato soltanto di potere.

Il passaggio finale è un acquerello, dai toni sfumati e rosati del tramonto e di quelli lagunari di Venezia, ed è in quella languidezza di colori, suoni e dialoghi che si stempera il carattere all’inizio così eccessivamente rigido e distante di Lenny. Il Papa Giovane è un mistero che si dischiude puntata dopo puntata attraverso ogni personaggio con cui entra in contatto, in ogni singolo brandello del suo passato che riaffiora sulla scena, fino ad aprirsi a ventaglio in uno spettro coloratissimo che dal nero al bianco cattura ogni colore e ti mostra una vera e propria storia di formazione: al potere, certo, al rapporto diverso con la religione ma soprattutto alla vita.

Lenny Belardo, in fondo, agli esordi della serie non è né più né meno che un bimbo perso, che capricciosamente cerca di attirare su di sé l’attenzione non solo dei suoi collaboratori più stretti ma prima di tutto dei suoi fedeli e – in quel mare magnum di volti indistinti – di quei genitori che lo hanno ripudiato e da cui ora vorrebbe essere inseguito, per ricominciare a capire chi è, per colmare il vuoto dell’essere un orfano senza poter incolpare nemmeno il destino. Ed è attraverso il suo filtro che i temi portanti della serie si sviluppano; gli eventi stessi condizionano profondamente e prevedibilmente Lenny, costringendolo a spaccare il guscio duro che avrebbe potuto farlo ascrivere niente più che al novero dei conservatori oltranzisti, per mostrare una persona che ha qualcosa del santo.

E ha qualcosa del santo perché come tutti i santi è di una purezza estrema, pericolosa in una realtà mondana che vive di sfumature, compromessi e mediazioni.

Nel mezzo ci sono gli eventi, appunto, che vorticano attorno alla figura di Lenny, intralciano e arricchiscono il suo viaggio verso una consapevolezza nuova della vita e il monito a “credere di più in se stesso”, perché è l’unico modo per esercitare il potere con completezza. E sono argomenti che entrano nella trama strettamente in relazione a Lenny, in un rapporto di causa-effetto che scatena conseguenze a volte meravigliose e a volte drammatiche. Sorrentino fa un excursus quasi da manuale moderno di teologia. Quasi perché non ci sono tecnicismi. Quasi perché la narrazione del percorso la vince su qualsiasi tentazione di offrire una sola risposta.

Non ci sono risposte in The Young Pope, solo domande e un percorso che va sviscerato osservandolo e poi ognuno ne trarrà inevitabilmente le sue conclusioni. E non ci sono nemmeno facili scappatoie: il tempo passa, in questa narrazione senza trama, in questa collezione di tanti momenti. Il tempo passa, lascia le sue tracce, solchi profondi nel cuore di tutti, dal troppo passionale cardinal Voiello alla sempre discreta Suor Mary al non più timoroso cardinal Gutierrez. Il tempo esige anche il pagamento dei suoi debiti, a chi ha troppo osato, a chi di troppi peccati si è macchiato.

The Young Pope è certamente una serie complessa e innovativa per tanti versi: perché sviscera situazioni drammatiche senza svilirle e senza offrir spiegazioni scontate; perché il suo intreccio non è classico e non è lineare; perché lo stile con cui è girato, così visionario e surreale, ha poco da spartire col racconto prosaico e ridotto all’osso della catena di azioni e reazioni a cui ci siamo abituati con le serie tv. È una serie innovativa perché tutti gli attori recitano davvero, fino in fondo, soprattutto e prima di tutto un Jude Law che sa passare dal profilo arrogante del novello Re Sole (o Giulio II, per citare una figura a lui ben più vicina) allo sguardo lacrimoso e le labbra strette del bambino-adulto inconsolabile di fronte alla crudeltà delle morti che più lo toccano.

Menzione speciale: la musica. Perché, come sempre, in Sorrentino la musica non è mai sottofondo sciatto lasciato a se stesso o pentagramma di poche note per guidare l’emozione del pubblico quando le immagini non bastano. La ricerca musicale è sempre squisita, l’effetto è spesso sorprendente (da pezzi di musica classica a “I’m sexy and I know it” in tre secondi netti ed entrambi, a modo loro, hanno più che semplicemente un senso). Perché la musica, in The Young Pope, è rumore dei pensieri dei personaggi, colonna sonora delle loro giornate, vibrazione prodotta da luoghi stranianti (come il deserto bianco di fronte a cui si confrontano Suor Mary e il cardinal Voiello) oppure fitti di pace.

Nello spartito composito di questa serie, ogni emozione ha il suo posto ed è forse questa la ricchezza più grande di The Young Pope: oltre la storia, oltre l’ottima caratterizzazione, oltre i paesaggi mozzafiato e le domande laceranti, c’è sempre un’emozione mai scontata, la capacità di Sorrentino di risvegliare nello spettatore tanta partecipazione che all’ultima puntata non si può non guardare ai personaggi come a vecchi amici, incontrati, persi e poi ritrovati. Basta anche solo questo per fare di The Young Pope un esperimento riuscito.

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