Tremate, tremate, le supereroine son tornate

Wonder Woman Poster

C’erano davvero dubbi? No, dico, c’erano davvero dubbi – nel 2017 – che una donna potesse girare un buon film di supereroi con protagonista una supereroina? A giudicare dai commenti esterrefatti ed entusiasti di molta critica cinematografica… sì.

In un mondo dove la parità dei generi esiste nei fatti e non solo sulla carta, io adesso non mi appresterei a dividere questa recensione in due spezzoni – uno più prettamente di critica stilistica e l’altro decisamente politico. Ma viviamo in un mondo dove la realtà è molto meno rosea di come ce la dipingono a parole e quindi, no, non ci si può limitare a parlare di Wonder Woman come di un film sui supereroi coi suoi pregi e i suoi difetti – probabilmente finora il migliore del DCEU, anche perché Zack Snyder non ci ha messo le mani in prima persona e Patty Jenkins s’è dimostrata all’altezza del compito.

Dobbiamo metterci le mani sulle guance e imitare l’espressione esterrefatta di Deadpool in quella famosa gif, mentre ci ripetiamo tutti in coro: “ommioddio, ommioddio, una regista donna ha fatto un buon film su una protagonista donna, e il film sta avendo anche *respirone* successo ai botteghini“. Perché, notoriamente, si dirige un film coi genitali e c’erano dubbi che una vagina potesse farcela. E perché, notoriamente, non è vero che poco più di metà della popolazione mondiale sia femmina e con gusti abbastanza variegati da riempire i cinema pure se non si parla di commedie romantiche.

Pure se, per esempio, un film su personaggi che combattono mette loro nel ruolo di protagoniste e non in quello di stupide bambole compiacenti, che  appaiono sullo schermo in scomodissime pose plastiche per mostrare al pubblico le grazie di sotto la tutina aderente.

Un personaggio che agisce in prima persona, del loro stesso genere, con tutto il suo corollario di debolezze, che non è nè un angelo lontano ed etereo senza funzioni corporali ma nemmeno una superbona ultra-perfetta, che aspettava solo l’uomo della sua vita che la mettesse al suo posto.

E andiamo, allora.

[ATTENZIONE, SPOILERONI]

È il finale che li frega

Wonder Woman è un film di supereroi che ha un merito, rispetto a quello che il convento ha passato ultimamente: è una origin story lineare e abbastanza coerente con le sue premesse (ma sono costretta a sottolineare il “abbastanza”), un film con una buona regia, che scorre in maniera piacevole e fresca, non è farraginoso ma nemmeno eccessivamente concitato. È anche un film che non apre troppi fronti e non vagheggia troppo sui massimi sistemi senza possedere la struttura adeguata per filosofeggiare sui temi che tira in ballo.

A guardare Wonder Woman non ci si annoia, le risate sorgono spesso spontanee e non sono né troppe né troppo forzate (ho già parlato dell’umorismo da sit-com di serie B di troppi film Marvel dell’ultimo periodo e non ci ritornerò). Il cast che accompagna Diana nella sua missione alla ricerca di Ares è variegato, a tratti molto sconclusionato, una specie di comica corazzata Potemkin che forse lascia un po’ il tempo che trova nei momenti più drammatici ma il risultato finale resta gradevole.

Soprattutto, le donne presenti nel film hanno una caratterizzazione. Una caratterizzazione vera che vada l’oltre “voglio trovare l’uomo della mia vita” o “il mio unico rimpianto in una vita spesa a uccidere su commissione è non poter avere figli” (#ciaoWhedon). È stupefacente come tutta la prima parte del film sia popolata solo ed esclusivamente di donne, come queste donne guerriere funzionino benissimo nel loro eremo paradisiaco isolato da un resto del mondo ormai in rotta, come la stessa Diana sia una bambina, prima, e una donna, poi, affascinata dalla guerra, dal combattimento e dall’onore che si può conquistare solo sul campo.

Per buona parte del film (sottolineo di nuovo questo punto, perché è importante) Diana sa essere quello che i supereroi di una volta erano, pedagogicamente, nei fumetti: un esempio per gli altri. Diana è molto ingenua e molto pura ma non c’è nulla di sciocco o forzato in una purezza che è solo ignoranza dei meccanismi di un mondo che ancora non conosce. Anzi, quella purezza diventa anche occasione per fare di questo film un racconto di crescita, di un passaggio all’età adulta con tutto il disincanto che comporta.

E le interazioni con il male interest? Umane, finalmente. Sì, Steve Trevor è il primo uomo che Diana incontra ma quello che si genera in lei è prima di tutto la curiosità consapevole di una donna che gli uomini li conosce solo di nome, ma non è così infantile e persa da farsi affascinare da un paio di begli occhi azzurri e perdere di vista il suo obiettivo. Le loro interazioni sono realistiche, genuine, ed è onestamente divertente notare la confusione con cui la giovane spia americana si ritrova a dover guardare le spalle alla ben più potente Diana, piuttosto che combattere per proteggerla.

C’è un “però” in un film che risulta coerente e ben calibrato per i primi centoventi minuti, ed è un “però” che riguarda il combattimento finale fra Diana e Ares, un combattimento che non avrebbe dovuto essere esilarante e che soprattutto mette in discussione tutte le premesse senza dare le risposte necessarie. Perché, messa di fronte alla pochezza di un’umanita che agisce da sola e non spinta da Ares – che qui piuttosto finisce per vestire i panni della Eris seminatrice di zizzania di mitologica memoria – Diana risponde che solo l’amore può salvarci. Va benissimo ma è il modo ìn cui la risposta arriva che non quadra col resto della storia.

In una sequenza che è un vero e proprio ribaltamento del trope del “manpain” a cui siamo abituati nei film di supereroi (qui è il male interest a morire e, credetemi, funziona esattamente bene quanto funziona, a parti ribaltate, nei film dove è il male lead a perdere la sua bella e andare in berserk) Diana decide di non decidere. Diana decide di abbattere Ares e lasciare che gli umani siano.

Semplicemente siano.

Nonostante i suoi poteri, la sua capacità di trascinare e salvare, nonostante il suo ruolo predestinato, come ogni supereroe che si rispetta nei blockbuster degli ultimi decenni, Diana fa un passo indietro, si appella ai massimi sistemi, e si scarica della responsabilità di intervenire nelle faccende umane, limitandosi a eliminare fisicamente una controparte che, a ben vedere, nemmeno è stata la causa primaria della guerra (e qui si parla di Prima Guerra Mondiale).

Ci vuole l’amore, è vero, ma l’amore può solo essere la forza trainante di un cambiamento a cui i supereroi continuano a non prendere parte, perché schierarsi da un lato o dall’altro della barricata significa far pendere drammaticamente la bilancia in quella direzione e innescare un cambiamento. E, se i supereroi vivono nel nostro mondo, questo ruolo non se lo possono permettere. Sia mai che gli spettatori da casa ricevano un riscatto, almeno nella fantasia. Sia mai che in un mondo fantastico dove i supereroi, insomma, esistono, insegnino alle persone che bisogna schierarsi, bisogna lottare, perché lo status quo non va più bene. Perché se gli uomini si scannano, sarà anche vero che la razza umana è afflitta da una congenita voglia di farsi del male, ma fare il tifo per la distruzione è abbastanza cretino.

Ma il film zoppica proprio quando dovrebbe portare le premesse a una conclusione che ancora non si vuole trovare. Non siamo più in un film di Spiderman, dove l’orizzonte inizia e finisce nella città di New York. Ci siamo posti delle domande ma i supereroi tacciono, invocano la retorica, ammazzano il supercattivo e tornano a confondersi nella folla. Come se fossero davvero solo un’altra goccia nell’oceano – peccato che non sia così.

Non fermiamoci qui

Ma questo è un discorso che richiede un post a parte e non mi ci dilungherò qui. Questo dei finali mutilati è un problema endemico e strutturale di molta parte della narrativa fantastica contemporanea, un nostro problema di creativi e fruitori, ingabbiati in una società che non riusciamo a cambiare e ci impedisce persino anche solo di sognarlo, il riscatto.

In ogni caso Wonder Woman di cose molto belle ne ha fatte. Ci ha consegnato un intero film di donne amazzoni che lottano, che parlano di onore, che si autogovernano, fiere e forti, non ingessate in abiti succinti. La Diana di Gal Gadot è un fiore bellissimo, è impulsiva, determinata, forte e intelligente ma è anche profondamente ingenua, a volte estrema, capricciosa e indomabile e tutto questo è bello.

È bello perché è questo il tipo di personaggio di cui abbiamo bisogno: non necessariamente una supereroina ma una donna con tutte le sfumature e sbavature del caso. Una donna a cui si permette di sbagliare, di essere naïve, di non lasciarsi fermare quando decide di voler agire, invece di restare nelle retrovie a guardare.

È un film fresco e nuovo perché, finalmente, le donne combattono non con altre donne, ma con altri uomini. Alla pari. Perché il nemico, intermedio e finale, è un uomo e le scene di combattimento sono spettacolari, ben costruite, con un uso del rallenty che rende tutto decisamente più acrobatico – e la colonna sonora (in particolare modo la theme song di Diana magistralmente interpretata dal violoncello di Tina Guo)  ti prende, eccome se ti prende.

E dunque, basta. È venuto il momento di spezzarla questa maledizione – questa presunzione infondata – che i film sulle supereroine non attirino pubblico, che nessuno voglia vedere donne in ruoli da protagonista nei film d’azione o che un film girato da una donna su una donna debba essere eccezionale, per dimostrare che anche le donne hanno diritto a parlare di sè e riscrivere una mitologia di se stesse che vada oltre il romcom.

Era bastato il flop di Catwoman, tredici anni fa, per continuare a raccontarci che i film sulle supereroine non funzionassero, un flop tra l’altro abbastanza ingeneroso. Catwoman non era un film così malvagio come gli stessi Razzie Award dell’epoca ci tennero a sottolineare. Di certo non ha mai raggiunto i livelli terribilmente bassi dei film del franchise di Thor, del secondo Avengers, dei primi due film della trilogia su Wolverine, di Conflitto finale, di Superman Return e Man of Steel o, peggio ancora, di Civil War.

Ma, tant’è, i doppi standard esistono ancora e apparentemente questa valanga di trash non ha fermato i produttori dal macinare a ritmo continuo film su supereroi uomini.

Se qualcosa Wonder Woman ha dimostrato (perché dobbiamo sempre dimostrare qualcosa) è che l’altra metà del cielo ha i soldi per andare al cinema e i film sulle supereroine li vuole. Fortemente e disperatamente.

L’inizio è stato buono, non fermiamoci proprio adesso.

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