E se stavolta la ciambella non fosse uscita col buco?


C’è qualcosa di indefinito e indefinibile, nella terza stagione di Fargo, che mi ha costretta a ruminare per giorni, prima di approdare alla scrittura di questo articolo.

Mi è piaciuta? Sì, ma con delle riserve. Piccola premessa: questa recensione sarà punteggiata di piccoli spoiler, niente di eccessivamente rivelatorio ma potreste correre il rischio di capire dove va a parare il finale di stagione.

Lettore avvisato, mezzo salvato.

Fra faide familiari e loschi figuri

La terza stagione di Fargo si svolge a cavallo fra il Natale del 2010 e la primavera del 2011, con un importante salto temporale sul finale (anche più consistente di quello della prima stagione). La storia ruota attorno a due fratelli gemelli protagonisti – entrambi interpretati dal sempre ottimo Ewan McGregor – e al loro contendersi un francobollo prezioso, eredità del padre defunto, in una faida che col passare delle puntate assume contorni sempre più pericolosi e raccapriccianti.

Nel mezzo c’è la tranquilla vita di provincia nel Minnesota che viene, ovviamente, sconvolta da una serie di efferati omicidi e, soprattutto, dalla comparsa in scena di un portatore di sventure circondato dalla stessa aura cupa e malefica che avvolgeva il letale Lorne Malvo. Il suo nome è V. M. Varga (mai ci sarà dato sapere per cosa stanno quelle iniziali) e si porta dietro l’immancabile duo di esecutori materiali di omicidi e intimidazioni, mentre si ritrova a fronteggiare la vice-sceriffo Gloria, sulle tracce del vero omicida del suo patrigno, prima vittima della summenzionata faida fra i fratelli Emmit e Ray Stussy. E se dal lato di Ray c’è la scaltra Nikki a guidare le sue mosse nell’ideale partita a scacchi contro il fratello per riavere l’adorato francobollo, dall’altro lato Emmit può contare sul sostegno del migliore amico Sy Feltz, che lo aiuta, tra le altre cose, a gestire i suoi affari di “Re dei Parcheggi del Minnesota”.

L’ambientazione è stata stabilita e la storia sembra essere pronta, come sempre, a scivolare su binari multipli, fino a confluire in un unico finale, con la stessa scioltezza a cui Noah Hawley ci aveva abituato durante le prime stagioni.

… o forse no.

Troppi simbolismi e troppe porte aperte?

Qualcosa scricchiola nella terza stagione di Fargo e ho avuto difficoltà a capire cosa, esattamente, anche dato il mio parzialissimo punto di vista di grandissima amante di tutto ciò che riguarda Fargo.

Cerchiamo di capirci: la terza stagione di Fargo resta un buon prodotto, sicuramente sopra la media rispetto a tante altre serie concorrenti, ma – per citare Boris – forse è il caso di fermarsi qui. Noah Hawley adesso ha per le mani anche la gestione di Legion e lui stesso ha detto che non sa se potrà lavorare al materiale ancora disponibile su Fargo, preferendo piuttosto una pausa.

Ha senso. Ha senso perché la terza stagione di Fargo sembra il frutto di un esperimento non del tutto riuscito nel senso di cambiare, ancora una volta, la prospettiva narrativa della serie, perdendo però molto in termini di coerenza. La particolarità più meritevole delle prime due stagioni di Fargo era stata proprio la fortissima coesione narrativa, la capacità, da parte degli sceneggiatori, di intrecciare una storia partendo da tanti fili apparentemente sparsi e non collegati fra loro, riuscendo a incastrarli tutti in maniera perfetta e dare loro un senso nel quadro generale della storia. La trama di fondo, a rimettere gli eventi in fila nel loro ordine cronologico, era perfettamente lineare, c’era un tema unico da seguire che permeava tutta la stagione ed era la costruzione dell’intreccio, l’editing a rendere tutto originale e avvincente.

La terza stagione di Fargo sembra fuori tempo fin dalla prima puntata. Fargo ha sempre avuto un suo ritmo particolare, lento e cadenzato all’inizio, poi sempre più rapido e coinvolgente, a mano a mano che tutti i protagonisti comparivano sulla scena e si trovavano sempre più avviluppati nei rivolgimenti della trama. Nel caso della terza stagione non solo le prime quattro puntate risultavano troppo lente ma lo stesso andamento della serie è stato a dir poco singhiozzante. L’impressione generale era che mancasse un focus, un vero e proprio perno attorno al quale far ruotare la storia. Chi guardava la prima stagione era perfettamente consapevole che l’indagine di Molly sull’uomo trovato congelato nel bosco fosse solo incidentale, per farla arrivare al vero assassino, ovvero Lester (coadiuvato da Lorne). Il tema stesso della stagione era un vero e proprio contrasto nella crescita dei due personaggi di Lester e Molly, l’uno auto-condannatosi a una lenta discesa verso l’inferno, l’altra decisa a risolvere la terribile catena di omicidi e crescere professionalmente, staccandosi dalla figura di Verne.

Nel caso della terza stagione di Fargo tutto questo, più che mancare, è stato mal spiegato: non si capisce mai fino in fondo se il vero perno della storia sia il conflitto fra i due gemelli, l’indagine di Gloria – che si muove sempre fin troppo parallela agli affari di Emmit e Ray – o la rovinosa presenza di Varga, che specula alle spalle di Emmit, risucchiandogli i soldi e anche l’anima. La tensione narrativa riaffiora e affonda continuamente, mentre la serie non solo si fa fitta di simbolismi ma si muove su così tanti binari differenti che alcuni di questi finiscono per essere lasciati in sospeso o risolti fuori scena. Manca il senso di completezza e coerenza che aveva caratterizzato le prime due stagioni.

Il motivo di queste carenze può in realtà essere rintracciato in quello che è sia il punto debole che il punto di svolta di questa stagione. La terza stagione di Fargo si rivela per essere potentemente simbolica molto più di quanto non lo erano state le prime due. Certo c’era qualcosa di simbolico nella figura di Lorne, che come un moderno Loki si divertiva a seminare zizzania e portare scompiglio nelle vite delle persone che incontrava. Certo c’era qualcosa potentemente simbolico nello scontro morale fra due famiglie completamente diverse come quella dei Solverson e dei Gerhardt nella seconda stagione – senza contare il contrasto nel rapporto fra Lou e Betsy, da un lato, e quello fra Ed e Peggy dall’altro.

La terza stagione di Fargo, però, fa un salto ulteriore: menzionare Twin Peaks, nell’anno in cui è tornato in onda, diventa inevitabile, e non solo perché Ray Wise (il Leland Palmer di Twin Peaks, appunto) fa la sua comparsa come una sorta di osservatore mistico e onnisciente, di cui non ci è mai dato sapere la reale natura e che si occupa di guidare determinati personaggi e punirne altri.

L’emblema più forte di questa virata quasi “mistica” e visionaria è proprio V. M. Varga, uomo senza nome, dall’aspetto lercio e  apparentemente dimenticabile, bulimico e abulico, maniaco del controllo, gestore di una forza criminale consistente ma pronto a spogliarsi di ogni orpello per cambiare pelle e ricominciare da zero. È solo sul finale che capisci che cosa simboleggia Varga, con i suoi atteggiamenti e i suoi vizi, un finale lasciato in modo voluto e frustrante in sospeso.

Quello che Varga incarna sembra essere il lato più rapace, consumista, vorace e spietato del capitalismo. Come un moderno Mefistofele, induce il Faust di turno – Emmit – a vendersi l’anima, la famiglia, le amicizie e poi un intero business alla causa dell’espansione economica a tutti i costi, al costo persino di essere usato come copertura per gli innominati affari loschi di Varga e della sua organizzazione. A costo di perdere o quasi il proprio migliore amico, di farsi manipolare fino a diventare dipendente da questo demone costantemente appollaiato sulla spalla, come un bambino smarrito e senza guida.

E se Varga rappresenta, in fondo, un sistema così opprimente e radicato che nessun singolo essere umano, da solo, può sconfiggerlo, allora anche Gloria sembra destinata a fallire… o no? Il finale, più che aperto, sembra sospeso, come se a questa situazione di stallo non ci sia modo di porre fine: forse ha vinto Varga o forse no, forse ha vinto Gloria ma è una singola battaglia.

Lo stesso tono della stagione è molto più cupo, rassegnato e cinico di quello delle stagioni precedenti e a ben vedere, dato che questa terza stagione sembra il segno dei tempi disillusi e frustranti in cui stiamo vivendo. Manca quel senso finale di “giustizia è fatta” che nonostante tutto le stagioni precedenti si portavano dietro. Manca una chiusura completa in questo fitto intreccio di simbolismi. In fondo anche di Lorne sapevamo poco ma non era necessario che ci venisse spiegato nei dettagli il suo background. Nel caso di Varga i simbolismi sul suo personaggio sembrano essersi infittiti così tanto che si perde la concretezza che ha contraddistinto la linea di Fargo, i piedi “costantemente per terra” della sceneggiatura, pur con momenti in cui ci si permetteva di spiccare il volo e diventare quasi metafisici.

Fargo, lo ripeto, resta comunque un buon prodotto: la stagione ha risposto alle domande principali, la sceneggiatura è buona, la recitazione è ottima e i personaggi sono tutti ben costruiti. Peccato per quel “però” che aleggia nell’aria, perché dopo dieci puntate ti resta incollata addosso la sensazione che qualcosa continui, irrimediabilmente, a mancare.

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