#BlackLivesMatter: non sono i saccheggi il vero problema

Il vero problema è la persecuzione sistematica di un intero popolo (su cui tutti dovremmo informarci meglio)

Non so se il 2020 sarà l’anno in cui tutti i nodi verranno al pettine – la Storia non si muove così velocemente – ma so che in questo momento il mondo è attraversato da un desiderio di giustizia e di rivalsa che si intreccia così strettamente con la violenza e la rabbia, che non posso fare finta di nulla.

Questo blog è nato soprattutto per raccontare e dissezionare la fiction, ma non mi sembra giusto non parlare di #BlackLivesMatter e di quello che sta succedendo adesso negli Stati Uniti – che è solo il temporaneo picco di una crisi globale che non accenna a finire.

Non mi illudo di essere qualcosa di diverso da quello che sono: una donna nata in Italia, privilegiata, perché nata bianca e figlia di italiani dalla pelle bianca. Cosa ne posso sapere io della disperazione degli afroamericani, dello spirito delle loro lotte, delle loro rivendicazioni, che da secoli rimbalzano contro il muro di omertà di un Paese che è stato fondato e ha prosperato anche e soprattutto sulle loro spalle di schiavi, trattati come oggetti ed esclusi da ogni diritto? Studiare la storia, approfondire i temi politici, leggere libri a volte non basta.

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Un uomo protesta a Lafayette Square, Washington | (foto di Rosa Pineta, disponibile su Wikimedia) (CC BY 4.0)

Bisognerebbe esserci vissuti, in mezzo a quella rabbia, a quella povertà, a quell’emarginazione, per capire fino in fondo. Perciò trovo ipocrita mettermi qui a pontificare di pace e amore, a parlare di non violenza o a fingere di dimenticare che tutte le rivoluzioni che ci hanno portati a questo punto sono nate, purtroppo, anche dal sangue, dalla guerra, dallo scontro violento.

Perché quando è lo Stato stesso in cui nasci e vivi a vederti come un corpo estraneo; quando sono i legislatori e i protettori dell’ordine prestabilito a trattarti come un criminale solo per il colore della tua pelle; quando chi dovrebbe proteggerti ti attacca e difende chi ti attacca, a nulla più valgono le proteste pacifiche, gli appelli alla ragione, che pure ci sono stati e che sempre sono stati ignorati.

Trovo di cattivo gusto esprimermi sui saccheggi e condannarli, con la sicumera di un governante saggio e benevolo, perché a noi – nati sotto il segno del capitalismo – quest’attacco alla proprietà privata ci fa sempre un po’ orrore. “Non si spaccano le vetrine, non si attaccano le grandi catene di negozi, così si danneggia l’economia e per la proprietà transitiva anche il lavoro di chi ha prodotto quegli oggetti e li vende” è un’argomentazione che ho sentito girare molto, troppo.

L’economia che deve girare, oppure moriremo tutti, è un bel pretesto che ci è stato servito sul piatto anche durante la pandemia causata dal COVID; quando ci è stato fatto capire di nuovo che non sono lo Stato e la Finanza a esistere per assicurare il benessere degli esseri umani, ma sono gli esseri umani a esistere per assicurare il benessere dello Stato e della Finanza. Un incubo hegeliano, insomma.

Immaginate se al tempo del primo dopoguerra, qualcuno avesse detto: “Va bene, Adolf Hitler ha invaso la Cecoslovacchia, ma non possiamo certo reagire attaccandolo, sarebbe guerra! Non provochiamolo, cerchiamo di fare un accordo per tenerlo buono.” Per fortuna non è accaduto e nel 1938… no, niente, nel 1938 c’è stato l’Accordo di Monaco e sappiamo tutti che Hitler, dopo, non si accontentato di quest’ennesima annessione, anzi.

Potrà sembrare esagerato paragonare gli Stati Uniti a uno Stato totalitario e nazista, ma non lo è, se si pensa a quello che è accaduto nella “terra della libertà” negli ultimi anni – sto pensando alla deportazione sistematica di tanti immigrati irregolari o presunti tali provenienti dal Messico, con bambini separati dai genitori e chiusi nelle gabbie, trattati alla stregua di bestie, se non peggio.

Black Lives Matter_Protesta a Oakland
La protesta divampa anche a Oakland | (foto di Daniel Arauz, disponibile su Flickr) (CC BY 4.0)

Bisognerebbe aver introiettato così tanto quello che ci insegnano a scuola e i telefilm americani da decenni, per considerare democratico un Paese che è stato fondato sulla schiavitù e che ancora praticava la segregazione razziale negli anni Cinquanta, dove la giustizia viene amministrata dal “sentimento del giudice” e dove i poliziotti vivono in un tale clima di impunità, da poter giocare quotidianamente al tiro al bersaglio coi neri e picchiare le mogli, sapendo che neanche loro potranno andare a denunciarli da nessuna parte.

Un Paese dove ogni tot di mesi una persona può “impazzire”, prendere un fucile e fare strage in una scuola a caso e le élite penseranno comunque che il problema non sono le armi, perché fior di lobby delle armi finanziano i politici di turno.

Io non sono nessuno per permettermi di fare la morale ai manifestanti e a quelli che stanno spargendo il terrore, dopo averlo patito per decenni. E anche se avessi titolo per farlo, sono convinta che quello a cui stiamo assistendo sia un caso di legittima difesa sociale. In ogni caso, se queste rivolte fossero accadute in Cina o in Russia, sono abbastanza convinta che nessuno avrebbe parlato di sovversivi pericolosi e anti-sistema ma di eroi che combattevano contro il totalitarismo.

Ma, ahimé, quando chi fa il giornalista vive e prospera nel sistema che viene attaccato, sa che è controproducente contestarlo. In tutto questo, come sta l’informazione mainstream – nostrana e non? Non benissimo. Qualcuno è in mano a editori miliardari, che non hanno tantissima voglia di mettere in discussione i propri privilegi. È il caso del The Washington Post, non il baluardo di libertà e verità del film di Spielberg ma una proprietà in mano nientemeno che a Jeff Bezos. È il caso dei grossi poli editoriali nostrani, che troppe testate riuniscono sotto un’unica mano pagante, con buona pace del diritto al pluralismo.

Poi ci sono i giornalisti, ovunque sottopagati, troppo pochi, mandati allo sbando, che comunque negli USA si beccano anche arresti e gas lacrimogeni, perché osano fare quello che lì non si dovrebbe mai fare: mostrare in diretta internazionale la violenza brutale e arrogante dei poliziotti americani. E ci sono i social, che complicano la situazione, spezzettano i punti di vista, ci sommergono di un flusso costante e non selezionato di informazioni, spesso contradditorie, che nella nostra testa finiscono per comporre un mosaico troppo grande da abbracciare tutto in uno sguardo solo.

Non credo, come molti esponenti del giornalismo tradizionale fanno, che i social siano necessariamente un male – nonostante siano piattaforme disegnate e gestite da altri multi-milionari, quindi tutt’altro che innocenti già nel modo in cui la loro interfaccia viene concepita. Ci connettono ed è un fatto che possano essere un aiuto importante per scoprire notizie meno note – magari condivise da chi ha assistito ai fatti in prima persona o da chi contribuisce a diffondere testate indipendenti. Possono essere un modo per mettere in discussione la visione di parte di molti giornalisti – che non sempre fanno fede al loro codice deontologico e che certe volte sembrano confondere il dovere di cronaca con il diritto di dare la propria opinione.

Black Lives Matter_Vancouver Art Gallery
Un’immagine della protesta di fronte alla Vancouver Art Gallery | (foto di GoToVan, disponibile su Flickr) (CC BY 4.0)

Fra i miei coetanei Millennial e fra i tanti Zoomer che conosco rilevo soprattutto lo sconcerto e la mancanza di fiducia verso i media tradizionali – specialmente quelli nostrani. C’è poco spazio per le notizie di rilevanza internazionale, anche sui canali di all news, quella poca informazione che c’è non è approfondita e troppo pochi sono quelli che la fanno con serietà, traducendo articoli di giornalisti stranieri (come Internazionale) o, in tempi più lunghi, fornendo resoconti e riflessioni geopolitiche molto dettagliate (come Limes). Dopo anni di frequentazione della carta stampata italiana, io sono finita a bazzicare molto spesso il Guardian, BBC News World e The New Yorker, che in questo periodo più che mai cerca di fare un’informazione completa, senza tacere né le colpe della polizia, né i mali di una politica americana che ha sempre dimenticato gli ultimi e che ha condotto il Paese a questo stato di rovina sociale, politica ed economica.

Mi fido un po’ meno dei social stessi, dei post estemporanei ma giustamente indignati, degli Youtuber che fanno informazione, non per cattiveria. Credo che siano comunque voci importanti, che cercano di dare risalto a quelle notizie, a quei punti di vista e a quelle narrazioni che non trovano posto nella stampa ufficiale – che è diventata vecchia, imbolsita ma si è anche troppo impoverita. Ma credo anche che, pur non avendo editori alle spalle, come i giornalisti e più di loro restino espressione del proprio punto di vista, non importa quanto ampio e ben informato.

Non si può essere tuttologi e a volte avere un’infarinatura di tutto non basta. Soprattutto è dannoso, da lettori e fruitori di notizie, fidarsi di un’unica fonte. Anche quando è ben disposta, resta parziale. Dovremmo piuttosto considerare i nostri coetanei, che ci parlano senza peli sulla lingua attraverso le piattaforme che frequentiamo più spesso, come bussole capaci di orientarci, come spunti da cui partire, ma di lì in poi dobbiamo tutti imparare nuovamente a muoverci da soli, valutando le notizie che ci arrivano con senso critico e tanto scetticismo.

È difficile, perché nessuno ci ha insegnato a farlo, perché siamo vissuti in un mondo dove lavorare fino a stramazzare è diventato un imperativo che ci ha succhiato sangue, tempo ed energie per dedicarci ad altro. Ad essere buoni cittadini, per esempio, con la disponibilità a curare le comunità in cui viviamo e con la possibilità di accorgerci delle troppe ingiustizie che ci circondano e a cui ci siamo assuefatti, come a un veleno, che però ci entra in circolo e ci distrugge lentamente.

Insomma e ripeto: io non sono nessuno per giudicare il dolore e la rabbia dei manifestanti che stanno ricordando al mondo che non può più ignorarli, che #BlackLivesMatter, che non è un mondo giusto quello in cui si chiudono gli occhi davanti all’oppressione sistematica di intere fasce di popolazione, per continuare a “tirare a campare”. Però sono qualcuno per dire che dovremmo impegnarci a informarci di più e giudicare di meno. A parlare meno per frasi fatte e a pensare di più al fatto che tanti equilibri si sono rotti e altri si stanno rompendo.

Le rivoluzioni non si fanno con le belle parole. Sarebbe bello che non si facessero neanche con la violenza ma secoli di storia ci insegnano il contrario. Ci insegnano anche che dobbiamo impegnarci tutti quanti con piccoli atti quotidiani di ricostruzione e anche sovversione, per cambiare la società civile sul lungo periodo, dopo che la guerra è finita e restano le macerie.

Non possiamo più sottrarci a questo cambiamento. Informarci, pretendere di essere informati e impegnarci a informare gli altri al meglio è solo il primo passo di questa lunga maratona.

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