Perché i manga hanno la stessa dignità dei libri (e vanno letti e studiati per essere capiti)

Il 1° Novembre Corriere della Sera ha pubblicato un editoriale firmato da Walter Veltroni: “Perché i manga hanno conquistato i nostri ragazzi“.In poco più di 800 parole l’ex-sindaco di Roma cercava di spiegare il “fenomeno manga” e provava a capire perché i “nostri ragazzi” sono stati conquistati dall’intrattenimento made in Asia: dai manga giapponesi agli show sudcoreani al k-pop.

Al netto della buona volontà, purtroppo quell’articolo si è rivelato un coacervo di luoghi comuni sul fumetto giapponese e su alcuni fenomeni della cultura pop contemporanea – con improponibili accostamenti fra manga, k-pop e Squid Game, che come unico minimo comun denominatore hanno la provenienza: il continente asiatico.

Seguendo le newsletter del Corriere e notando immediatamente questo articolo, da persona che ama e studia i manga mi sono sentita in dovere di rispondere alla redazione del giornale. Credo fermamente che un giornalismo di qualità debba dare spazio alle voci di chi studia un determinato fenomeno, se vuole fornire risposte chiare e informate.

È pericoloso e fuorviante affidarsi a occasionali, per quanto famosi, osservatori esterni, che si limitano a scrutare la superficie di quei fenomeni senza approfondirli e osservarli dall’interno. Pericoloso e fuorviante perché chi leggerà le conclusioni di quegli osservatori senza sapere, in questo caso, cosa sono i manga finirà per formarsi un’idea molto falsata di ciò che sono e rappresentano (e non solo per i “nostri ragazzi”).

Condivido anche qui sul mio blog la mail che ho inviato alla redazione del Corriere, perché tutto ciò che avevo da dire a riguardo è contenuto al suo interno.


Salve,

leggo spesso le ottime newsletter del Corriere. Nell’edizione de “La Prima Ora” di oggi, 2 novembre, ho notato subito l’editoriale di Walter Veltroni sul fenomeno manga. Non è la prima volta che vi scrivo a proposito di un articolo che riguarda il mondo del fumetto e dell’animazione giapponese – la volta scorsa l’argomento era il cinema di Hayao Miyazaki.

Temo di dover fare qualche piccolo appunto ai ragionamenti di Veltroni. Apprezzo la buona volontà nel voler analizzare un fenomeno culturale che negli ultimi decenni è molto cresciuto in Occidente ma di cui il pubblico generalista si sta accorgendo solo ora. Il tentativo di sviscerare una materia complessa e molto vasta è lodevole. Si avverte però che Walter Veltroni parla da esterno: non ha visto il fenomeno svilupparsi dall’interno nel corso degli anni e non lo ha studiato. Per questo le generalizzazioni sono tante (e pericolose, perché rischiano di fuorviare il lettore che di questi argomenti sa poco o nulla).

Lo dico perché sono cresciuta nelle comunità che si sono sviluppate nelle fiere e attorno alle fumetterie, ben prima che il fumetto giapponese approdasse in libreria, disponibile per un pubblico più ampio. I manga (e il fumetto e l’animazione in generale) non sono solo una mia passione. Sono anche l’oggetto del mio lavoro. Ho scritto un articolo accademico per “Manga Academica vol. 11” sul tema della struttura narrativa dei manga e sul loro impatto “pedagogico” sui lettori. E ho scritto un saggio monografico sui risvolti politici e culturali di un’importante opera del maestro Hayao Miyazaki, “Nausicaä della Valle del Vento. L’opera della vita di Hayao Miyazaki dal manga al film di animazione”.

Libro Nausicaa
Il mio saggio su Nausicaä della Valle del vento

In “Perché i manga hanno conquistato i nostri ragazzi”, Veltroni dice: “Cominceranno dai manga e forse — ma i librai dicono che già è così — scopriranno per questa via altre storie, altri testi, altri paesaggi.” Dire che il manga (e il fumetto, in generale) sia il gradino più basso di un presunto percorso di crescita culturale che poi approderà alla “vera cultura”, quella della letteratura “alta”, significa già travisare il fenomeno. Significa pensare che ogni manga assomigli all’altro, che ogni serie di ogni autore sia puro prodotto commerciale privo di un valore intrinseco, di uno stile originale, di messaggi profondi e anche scomodi.

Umberto Eco negli anni Sessanta già analizzava il fumetto da una prospettiva semiotica, riconoscendo un valore culturale tutt’altro che trascurabile alla “Nona Arte”. Adesso, nel 2021, siamo più che pronti a parlare del manga (e del fumetto in generale) come di un’arte completa, che non è gradino ma mondo a sé stante, ricco di una varietà e di una profondità che può spingere il lettore ad apprendere com’è fatto il mondo, a capire meglio se stesso, a sviscerare la società che lo circonda e troppo spesso lo inghiotte in un vortice confuso di troppi impulsi e troppe spinte contraddittorie.

Le storie sono sempre intrise di una violenza parossistica e perciò irreale,” è un’affermazione che nasconde un’involontaria opera di cherry-picking. Si prendono in considerazione pochissimi titoli, quelli che rinforzano la tesi che il fumetto e l’animazione giapponese siano pura esaltazione della violenza, e si ignora tutto il resto. Si ignora, ad esempio, che il manga in Giappone si distingue per generi anche radicalmente diversi; che può essere intriso di violenza o esserne completamente privo; che può parlare di esseri dotati di formidabili superpoteri o normali ragazzi smarriti nel percorso di crescita; che può rivolgersi solo a bambini oppure a un pubblico anziano. Il cliché del fumetto o del cartone animato giapponese che è fatto solo di violenza, sesso estremo e bizzarrie è una semplificazione eccessiva – in cui non si cadrebbe se a parlare di questo fenomeno fosse chi lo vive dall’interno, chi lo ha studiato, chi ci è cresciuto.

Perché i manga non hanno conquistato solo i nostri “ragazzi”. Da anni ne fruiscono anche parecchi adulti – come la sottoscritta, che di anni ne ha 34 anni e ha trascorso gli ultimi 14 a leggere manga e trovare in essi, spesso, conforto e modo di sviscerare i propri problemi personali. Perché i manga possono e sono anche il frutto di scelte stilistiche, culturali, personali di autori che non sono solo e sempre intrappolati nelle maglie strette dei contratti delle case editrici giapponesi – affamate di vendite come ogni casa editrice, ovviamente. Sono prima di tutto autori, appunto, che impregnano l’inchiostro delle loro tavole del loro vissuto, dei loro incubi, dei loro problemi e dei loro sogni. Questo, più di ogni altra cosa, sta conquistando e ha già conquistato i nostri “ragazzi” (termine ombrello sotto cui mi permetto di ricomprendere i molto spesso citati Millennial e Zoomer).

Quello che sfugge a Veltroni – e non gliene faccio una colpa, osservando lui il fenomeno da esterno – è che i manga e gli anime si sono inseriti con successo in una nicchia lasciata vuota proprio dal cinema e dal fumetto occidentale mainstream, che, qui in Occidente, si sono ripiegati da anni su copioni spersonalizzati e sempre uguali, rivolgendosi prima di tutto e soprattutto a un pubblico molto giovane o molto generalista (vedi alla voce: Marvel Cinematic Universe). Oppure, e qui torniamo al fumetto, è stato forzatamente rinchiuso nelle definizioni altisonanti di “graphic novel” e simili, è stato separato dalla “massa volgare” delle opere che non sono abbastanza “difficili” e di nicchia. Una distinzione che rischia di ucciderlo e allontanare tanti lettori da opere che sono molto popolari, non perché si svendono ma perché sanno parlare al cuore di tanti lettori.

Noto spesso con dispiacere che la stampa italiana troppo spesso ricorre al termine “graphic novel”, per cercare di “nobilitare” determinati prodotti. Ma “fumetto” non è una parolaccia. È la neutra descrizione del mezzo artistico attraverso cui determinati autori, con grande efficacia e spessore, raccontano le loro storie: non il cinema, non il teatro, non la letteratura, non la pittura ma, appunto, i disegni con le nuvolette riempite di testo.

I fumetti.

I manga e gli anime possono essere estremamente di nicchia (il gekiga è fumetto squisitamente autoriale e lontano dalle logiche di mercato, diverso anche dal manga, ma questa è un’altra storia), mediamente autoriali o eccezionalmente mainstream. Quel che è certo è che hanno offerto a molti di noi lettori occidentali un altro punto di vista.

Per carità, a frequentarli anche loro rivelano i loro cliché, le loro gabbie narrative, i loro stereotipi a cui si inchinano spesso. La varietà nei generi e nel tipo di pubblico a cui si rivolgono, però, e la quantità massiccia di opere disponibili sul mercato garantiscono a noi, dall’altra parte degli Urali, la possibilità di variare, di non dover scegliere fra due sole alternative: la “graphic novel impegnata” e il “fumettone pieno di esplosioni pirotecniche”. Nel mezzo ci sono infinite sfumature e infiniti livelli di “impegno”, di interpretazione artistica, anche di azzardi che al nostro sguardo possono a volte apparire – a torto o a ragione – offensivi.

Proprio per questo ancora di più spiace che Veltroni faccia un mischione. Prima di tutto parlando di “Vento di Oriente” e di “Oriente”, definizioni che rischiano di farci cadere nel più vecchio e stantio Orientalismo, da cui nel 2021 dobbiamo tenerci ben lontani. Politicamente, storicamente, geograficamente e anche culturalmente l’Asia è un continente immenso e variegato. I prodotti di intrattenimento della Corea del Sud e quelli del Giappone possono sembrare a noi Occidentali “esteticamente” simili: ma il k-pop dei BTS non può essere apparentato con tanta superficialità al manga giapponese o al fenomeno “Squid Game” (che tra l’altro pesca dalla tradizione cinematografica coreana). È come cercare di ficcare in un unico calderone Quentin Tarantino, il neorealismo italiano e la Nouvelle Vague francese e dire sbrigativamente che “questo è il cinema occidentale”.

Anche nel caso del k-pop sarebbe il caso di interrogarsi sul perché questo tipo di musica eserciti un tale fascino sul pubblico di giovanissimi occidentali. È indubbio che anche in questo settore sia arrivata una ventata di diversità, musicale e culturale, dalla Corea del Sud. I BTS non cantano solo in inglese e i fan del k-pop ascoltano volentieri anche le canzoni cantate in coreano (e alcuni di loro si spingono anche a studiare la lingua coreana e voler conoscere più approfonditamente la cultura del Paese). Al netto delle inevitabili storture, poi, il mondo del k-pop offre un modello di comunità in cui molti giovani fan possono ritrovarsi a livello globale per discutere della musica che più amano e degli artisti che più apprezzano. Un’offerta ai più giovani che in questo momento un po’ manca nella musica occidentale, dove ormai pare esserci una divisione sempre più netta fra i “nostalgici dei bei tempi andati” e il “ciarpame” che viene dato in pasto alle radio, sperando che gli ascoltatori comprino qualche disco in più e ascoltino qualche canzone in meno su Spotify.

Il manga e l’animazione giapponese, la serialità sudcoreana e il k-pop offrono delle alternative, offrono comunità di discussioni, prospettive nuove, un affaccio su culture diverse. La loro diffusione anche alle nostre latitudini dovrebbe essere il riflesso, questo sì auspicabile, di quella globalizzazione che troppo spesso invece ha portato appiattimento invece che varietà. Eppure essa viene esaltata solo quando lo scambio avviene dall’Occidente verso il resto del mondo e mai in senso contrario. Ovvio che ogni fenomeno va analizzato criticamente. Ovvio che la passione non deve obnubilare il senso critico. Ma se vogliamo analizzare un fenomeno culturale di così ampia portata con mente lucida e sangue freddo, prima di tutto dobbiamo conoscerlo dall’interno. Prima di tutto dobbiamo sviscerarlo in tutti i suoi aspetti.

Limitarci a pattinare sulla superficie può solo causarci inquietudine perché, naturalmente, dal pelo dell’acqua si intravedono solo zone oscure. Bisogna immergersi in profondità per comprendere che il fondale marino è composto da ben altro che squali assetati di sangue e murene velenose.

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