Guillermo del Toro’s Pinocchio (2022)

Un’odissea durata quindici anni

“[Pinocchio] è diventato un film su un burattino in un mondo di persone che non sanno di essere burattini. Ma lo sono. Tutti sono burattini in questo film. E quello che meno si comporta da burattino è proprio colui che tutti credono un burattino! Ho pensato che ci fosse qualcosa di delizioso in tutto ciò!”.
Polygon, 17/12/2022, “Guillermo del Toro explains why he turned Pinocchio into one of his monsters

Quindici anni. Tanto è il tempo che ha impiegato Guillermo del Toro per realizzare il suo primo film di animazione, tutto dedicato al Pinocchio di Collodi. Di questi ben dieci sono stati spesi nella ricerca di finanziatori.

Tantissimi i rifiuti, perché nessuno voleva correre il rischio di investire denaro in un progetto di animazione in stop motion su un Pinocchio anarchico, che incitava alla ribellione durante il periodo della dittatura di Mussolini in Italia. Un film troppo strano, troppo cupo, troppo politico. Poi è arrivata Netflix e da quel momento fra pre-produzione – anche la ricerca di partner e di animatori motivati è stata lunga – e produzione sono trascorsi altri cinque anni, di cui quasi tre solo per la produzione vera e propria.

Pinocchio è un progetto che ha ossessionato del Toro per trent’anni e difatti il film stesso è intriso delle sue ossessioni, della sua estetica e dei temi a lui cari: primi fra tutti, il rapporto con la morte e la dittatura vista attraverso gli occhi innocenti e spaesati di un bambino. Da questo punto di vista il film potrebbe essere persino considerato un ideale terzo capitolo della duologia di altri due lavori del regista messicano: La spina del diavolo e Il labirinto del fauno.

Lo spettatore è avvertito, dunque. Quella di del Toro è una (annunciata) re-interpretazione del classico ottocentesco che, nelle sue stesse parole, sovverte totalmente il messaggio originario. Il Pinocchio di Collodi era figlio del suo tempo e, al termine del suo percorso, imparava a comportarsi da persona perbene, perché abbandonare l’infanzia significava rinunciare a ogni ingenuità e ogni voglia di sovvertire le regole. Non c’era spazio per essere ribelli in una società positivista e borghese, in ai bambini non era riservata la stessa attenzione e considerazione che dedichiamo loro adesso.

Il Pinocchio di del Toro è un anarchico, un essere libero in un mondo di marionette manovrate dai fili invisibili della dittatura. Come tutti i bambini, prima di essere irrigimentati nelle maglie della società, fa tante domande, non rispetta le regole e mette in discussione tutto ciò che non gli piace. E come tutti i bambini vorrebbe solo ricevere l’affetto disinteressato del proprio genitore. Il Geppetto di del Toro, molto più del personaggio originario, è effettivamente il secondo fulcro attorno a cui oscilla la trama poderosa di questo lungometraggio.

La Morte in Guillermo del Toro’s Pinocchio, reg. G. del Toro, Netflix, 2022

Anche questo povero vecchio, che ha perso il proprio amato figlio Carlo nei bombardamenti della Prima Guerra Mondiale, deve affrontare un percorso di crescita, imparare da Pinocchio a ribellarsi ma soprattutto a non promettere il proprio affetto in cambio di comportamenti virtuosi. “Geppetto, che è ossessionato dalla perfezione, impara che l’imperfezione […] e le cose così come sono, sono l’unica esperienza che si può avere del mondo; non cercare la perfezione, ma cercare l’imperfezione come virtù,” spiega del Toro.

In sottofondo a questa doppia avventura – da un lato l’accettazione dell’imperfezione da parte di Geppetto, dall’altra quella della mortalità da parte di Pinocchio – uno scenario grigio e terrificante, da film dell’orrore. Perché i nostri non si muovono più nell’Italia di fine Ottocento, bensì in quella degli anni Trenta, in pieno regime fascista. La sfida al dittatore, Benito Mussolini, ai gerarchi, ai podestà e a tutto il complesso sistema di oppressione per mantenere “ordine e disciplina” è diretto, senza filtri. Del Toro fa nomi e cognomi e forse anche per questo ha tanto faticato per ottenere i suoi finanziamenti.

L’aspetto, però, indubbiamente più interessante di tutto il lungometraggio – e anche il più originale ed esteticamente immaginifico – è il rapporto di Pinocchio con la vita e soprattutto con la Morte. Con la “M” maiuscola. Che si tratti dello Spirito della Foresta, che esaudisce il desiderio di Geppetto di riavere un figlio nel più terribile dei modi; o di sua sorella la Morte, che si palesa nella forma di una Sfinge; o, ancora, dei Conigli Neri, becchini che trasportano la salma di Pinocchio dopo la sua prima morte; del Toro dà una rappresentazione molto personale di queste entità che governano le vite di tutti gli esseri umani e abitano i loro pensieri, fin dal primo momento in cui prendono coscienza della propria mortalità.

Dopotutto cosa c’è di più umano ma anche di più terrificante per un bambino che sapere cos’è la Morte? Che tutti un giorno dovranno morire, i propri genitori ma anche loro stessi?

Del Toro prende l’episodio più volutamente messo ai margini di tutta la storia originale di Pinocchio – che tanto allegra come ci ha abituato la Disney non è – e ne fa un punto nodale del suo film: Collodi aveva fatto impiccare il suo burattino e lì voleva che il suo racconto finisse. Del Toro fa incontrare al suo pupazzo in stop motion più e più volte la signora Morte, costringendolo a crescere ad ogni nuovo incontro.

Lo scopo del suo viaggio non è più “diventare un bambino vero”, bravo ed educato, ma accettare la morte come aspetto ineliminabile della vita. E questo percorso e il modo in cui viene raccontato fa di Pinocchio un film molto più comprensibile per un pubblico di adulti che di bambini – del Toro stesso ha specificato che è una storia aperta anche a loro, ma solo se un adulto saprà stare accanto a loro e spiegargliela.

C’era una volta a Guadalajara

“L’animazione è cinema, l’animazione non è un genere. L’animazione è pronta ad essere portata al livello successivo. Siamo tutti pronti per farlo, quindi aiutateci, per favore. Fate restare l’animazione all’interno della conversazione”
El País, “OSCAR 2023 | Guillermo Del Toro gana el Oscar a mejor película de animación

Ho detto che l’aspetto più interessante di Pinocchio è il dialogo con la Morte. In realtà l’aspetto più interessante di questo progetto di del Toro è la sua storia produttiva e la risonanza mediatica, di critica e di pubblico che sta ricevendo.

Nel corso degli ultimi mesi Pinocchio ha vinto molti premi da parte di diverse giurie in giro per il mondo. L’ultimo in ordine di tempo ma non di importanza è l’Oscar come Miglior Film d’Animazione alla 95° Edizione degli Oscar. Durante i suoi discorsi di accettazione del Toro ci ha tenuto a sottolineare con forza che l’animazione non è solo per bambini; che l’animazione non è un genere ma un medium; che l’animazione è arte e può raccontare molte storie ma ha bisogno di essere presa in considerazione seriamente.

Sono tutte parole vere e preziose, ancor di più se pronunciate da un regista rinomato con una fama trentennale alle spalle. Guillermo del Toro, però, non è “tutto chiacchiere e distintivo”. Il regista messicano è stato il primo a impegnarsi, fin dagli esordi della sua carriera, nel mondo dell’animazione, partendo proprio dalla sua Guadalajara.

Qui ha fondato il Centro Nacional de Animación (CIA), anche conosciuto come El Taller del Chucho, che ha lavorato a ben 3443 fotogrammi del film su Pinocchio: sei minuti di animazione, nello specifico quelli ambientati nel Limbo e in cui apparivano i Conigli Neri. Sembra una notazione da poco ma non lo è. Del Toro è sempre stato un fermo sostenitore dell’animazione messicana.

Guillermo del Toro al lavoro con i pupazzi di: (da sinistra) Spazzatura, Pinocchio e Geppetto (Jackson Weaver/CBC)

Anche per questo motivo ha deciso di scartare sia l’opzione del live action che quelle dell’animazione 2D e 3D. Nel primo caso sarebbe stato impossibile rendere Pinocchio parte integrante del mondo in cui si muoveva – e la CGI della Disney lo ha ancora una volta dimostrato. Nel secondo caso del Toro si rendeva conto di non poter competere con la qualità dell’animazione e le risorse a disposizione della Disney.

La stop motion era diversa. In Messico esiste da anni una piccola ma fiorente realtà dell’animazione a passo zero, un filone che ha prodotto film di nicchia e dalle atmosfere horror che si dimostrano degni predecessori del Pinocchio di del Toro. E il regista messicano ha supportato questi giovani talenti e le loro energie, non solo finanziariamente ma anche guidandoli con i suoi consigli e le sue conoscenze. Così alcuni dei professionisti messicani più notevoli – del Toro li ha definiti “I Magnifici Sette” – si sono ritrovati proprio a El Taller del Chucho a lavorare alla storia del burattino più famoso del mondo.

Del Toro – che in questo progetto ha coinvolto come co-regista Mark Gustafson e ha scelto come partner lo studio di animazione Shadow Machine – ha esplicitamente preteso che si ricorresse agli effetti speciali e all’uso del digitale il meno possibile. Ha dovuto cedere soltanto sulle scene girate nell’oceano, a cui è stato conferito un aspetto volutamente gelatinoso, perché le onde sembrassero consistenti e pesanti.

E la matericità dei personaggi, delle ambientazioni, dei movimenti è il cardine dell’animazione in stop motion di questo Pinocchio. Che è curatissimo, fino all’ultimo dettaglio, e profondamente artigianale. Le espressioni facciali dei singoli pupazzi sono gestite da congegni meccanici, regolabili tramite fori in cui inserire i cacciavite. I pupazzi stessi sono pesanti, spigolosi, pieni di asperità e di imperfezioni. Perché, esattamente come poi imparerà lo stesso Geppetto al termine del suo cammino, l’imperfezione è necessaria a infondere anima e personalità alle cose. Del Toro stesso ha rifiutato che il film venisse “ripulito” dall’intervento digitale, perché voleva che ogni inciampo e ogni difetto fossero visibili e che, soprattutto, gli animatori si riappropriassero del rapporto, anche molto fisico, personale e non standardizzato, con l’oggetto che animavano.

Quello che rende Pinocchio una piccola perla dell’animazione – soprattutto in questo periodo in cui il ricorso costante alla CGI, al digitale e agli effetti speciali è diventato invasivo – è proprio la cura per ogni dettaglio, l’amore e la convinzione che hanno mosso tutti gli animatori, la fisicità estrema di ogni movimento e ogni oggetto che si muove sullo schermo. Osservandolo e ancor più scoprendone la storia produttiva, si comprende che questo lungometraggio è stato realizzato rispettando la professionalità di tutti gli addetti ai lavori. Cosa che non si può dire di molti progetti, attuali e non.

Il Pinocchio di Guillermo del Toro

“E infine la cosa più difficile è stata controllare il tono del film, perché è un film che può trasformarsi da commedia a dramma, a favola, a satira politica. Ci sono molti filoni in questo film. C’è voluto ogni briciolo di esperienza da parte di due registi, io e Mark Gustafson, con 30-40 anni alle spalle nel giro, per controllare il tono di quel film. Questo è davvero, davvero difficile”
AWN, “Guillermo del Toro talks ‘Pinocchio’

Il Pinocchio di del Toro è un progetto molto personale. Come ho ripetuto più volte in questo articolo, è una storia dominata dai temi a lui più cari, dalla sua estetica, dalla sua prospettiva e anche da una storia che è stata re-interpretata più e più volte nel corso dei decenni, con alterne fortune.

Piaccia o non piaccia, Guillermo del Toro’s Pinocchio – come è stato giustamente ribattezzato dalla piattaforma Netflix – è il frutto di una visione personale, coerente, molto accentuata. Se lo si guarda aspettandosi di ritrovare lo spirito del Pinocchio originale o una sua re-interpretazione vicina alle tematiche care a Collodi, si resterà delusi.

Questa è stata in parte la mia reazione al finale del film. Il lato positivo di reinterpretare un racconto già noto al grande pubblico è che il suo nome attirerà molti curiosi senza bisogno di tanta pubblicità. Il lato negativo è che ognuno si sarà già creato delle aspettative e potrebbe aver immaginato un’altra storia. Non posso dire che questo Pinocchio sia la mia interpretazione preferita della fiaba di Collodi ma ne riconosco a pieno il valore artistico e la capacità di conquistare uno spettatore meno affezionato di me al Pinocchio collodiano e di Comencini.

L’unico vero difetto oggettivo che risalta dal progetto di del Toro è semmai un altro. La sovrabbondanza di temi. In due lunghe ore il regista messicano ha deciso di toccare tutte le tematiche più importanti: la morte, la dittatura, il rapporto fra un genitore e il proprio figlio, l’obbedienza cieca alle regole, l’avidità del capitalismo – personificata dal conte Volpe (fusione di Volpe e di Mangiafuoco) – l’anarchia. C’è tantissimo in questo film, così tanto che a volte, nonostante la grandissima cura dei dettagli, si ha l’impressione di perdersi fra le scene, ognuna impegnata a mostrarci un problema diverso da risolvere.

Il Conte Volpe convince Pinocchio a firmare un contratto per lavorare nel suo circo in Guillermo del Toro’s Pinocchio, reg. G. del Toro, Netflix, 2022

L’altro mio personale motivo di fastidio è stata proprio l’ambientazione. L’Italia qui sembra un posto da cartolina, per quanto distopica. Il piccolo paesello – che non è sito in Toscana ma in Piemonte, stando alla mappa – in cui abitano Geppetto e Pinocchio ha un aspetto generico, come generica è la rappresentazione del fascismo nel film. Sembrerà un dettaglio ma sarebbero bastate poche e mirate ricerche storiche per sostituire la folla scandalizzata nella chiesa ai riti odiosi del sabato fascista – oppure il campo di addestramento in cui ai bambini viene insegnato a fare la guerra con le esercitazioni imposte ai più giovani attraverso l’Opera Nazionale Balilla.

Anche la scelta di un paesino sperduto, dove non esistono radio né tecnologie di alcun genere, sprofonda lo spettatore nell’Ottocento dell’ambientazione originaria di Pinocchio, piuttosto che negli anfratti più soffocanti delle città modellate dall’architettura fascista. Per non parlare degli spiriti della foresta, di chiara ispirazione miyazakiana, molto scenografici, ma che di italiano hanno ben poco. Sembrano appunti pretenziosi, quelli che sto facendo a del Toro, ma per un film che si propone esplicitamente di raccontare anche i mali del fascismo un’attenzione più marcata al “worldbuilding” avrebbe conferito una patina di realismo che, secondo me, avrebbe reso ancora più efficace e cruda questa denuncia.

Tant’è.

Ognuno alla fine è libero di raccontare la propria storia – anche se farebbe piacere vedere l’Italia descritta in modo meno scontato. Quel che è certo è che, al netto di queste imperfezioni, Pinocchio resta un’opera molto ben fatta, molto originale e piena di personalità. Nonché un testimone importantissimo del lavoro svolto dal mondo dell’animazione messicana, una ventata di aria fresca in un panorama occidentale dominato dalla “dittatura plasticosa” dei film Disney-Pixar e anche Dreamworks (almeno fino al recente Gatto con gli Stivali 2).

Da vedere almeno una volta, non importa quale sia la vostra idea su Pinocchio.

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