Il 10 gennaio 2016 si spegne a New York David Bowie, al secolo David Robert Jones, due giorni dopo aver consegnato al mondo la sua ultima opera, Blackstar.

Più che un album è un dolente testamento artistico, in cui Bowie recupera le sonorità jazz tanto amate e condivide con chi lo ascolta il suo personalissimo modo di esorcizzare una morte annunciata da tempo. E quel modo è fare musica e non nascondere niente, neppure un rantolo della sua voce ormai stanca, eppure ancora capace di trasmettere ogni singolo sentimento – anche quello di sentirsi intrappolato in un corpo che sta decadendo più rapidamente di quanto una mente febbrilmente creativa non voglia.

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Un articolo, però, non è un romanzo e da qualche descrizione oggettiva del reale bisognerà pur partire per far comprendere la ‘stra-ordinarietà’ di una mostra, che non è soltanto un percorso lungo e totalizzante sulla vita di un artista a tutto tondo; è anche, in tutti i suoi aspetti tecnici e stilistici, un’esperienza innovativa, un modo tutto nuovo – quadridimensionale – di esporre la cultura e l’arte al visitatore, senza appoggiarsi solo alla sua vista, senza sollecitare solo la sua mente.

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