Mi auguro che abbiate passate delle serene vacanze natalizie. Tuttavia qui in Italia manca ancora all’appello una festa, che tutte le altre si porta via, ed è il soggetto di uno dei film che ho consigliato il mese scorso sul mio canale Telegram.
Si tratta di due storie che hanno per protagoniste due coppie di ragazzini – Conan e Lana in Conan, ragazzo del futuro e Dipper e Mabel in Gravity Falls – che in entrambi i casi devono misurarsi con la fine del mondo (già avvenuta in un caso; da scongiurare nel secondo). In entrambi i casi c’è una generazione precedente di “grandi vecchi”, che devono fare i conti con gli errori commessi nel loro passato e aiutare i giovani eredi a non soccombere sotto gli effetti collaterali di quegli stessi errori.
E poi sono due storie guidate da una narrazione fortemente emozionale, ambientate in mondi soleggiati, dove contemporaneamente si accostano panorami rigogliosi e antri cupi e inquietanti. Questi panorami fanno da sfondo al viaggio – metaforico e fisico – dei protagonisti verso una meta, che in qualche modo è il ritorno a casa ma fatto dopo essere cresciuti ed essere diventati più consapevoli e aver trovato degli alleati per affrontare il mondo e le sue sfide.
Ci sono determinati libri che ti lasciano, a ogni lettura, qualcosa di diverso, specialmente se ti trovi a sfogliarli in momenti particolari della tua vita. Ed è ovvio che quello che ti colpirà di più di un romanzo a quindici anni non lo farà anche a trenta o scoprirai altri aspetti che nella ottusa cecità della tua adolescenza hai completamente ignorato. Il Signore degli Anelli è sicuramente quel genere di storia per me – con buona pace di chi pensa che la letteratura di genere sia per ragazzini e comunque meno complessa dei romanzi impegnati – ma in questo caso specifico due fattori hanno trasformato questa rilettura in una nuova avventura.
In A Lonely Place è, insomma, tante cose, tutte assieme, e come pochi altri film che sfuggono a una singola etichetta, fa il suo lavoro in maniera impeccabile e soprattutto radiografando i sentimenti umani in modo così dolente, da lasciare un segno nello spettatore, al punto che persino riguardandolo nel 2020 c’è da trattenere il fiato per l’angoscia e riflettere sui rapporti fra uomini e donne nel 1950.
Ci sono film che restano con te per tutta la vita.
Ci sono film che restano con te persino se non li hai mai visti, entrando nella cultura popolare con battute iconiche, scene emblematiche, modi di dire e di fare che finisci per assorbire pure tu – ignaro spettatore bastian contrario, che all’epoca dei fatti ti sei fieramente rifiutato di lasciarti trascinare a fondo (è proprio il caso di dirlo) nel vortice di isteria di massa che ha circondato suddetti film.
Ed è questo il mio caso con Titanic.
Se mi avessero detto che la lettura di questo trittico sarebbe stata così emotivamente impegnativa, ci avrei pensato due volte.
In realtà no.
In realtà lo avrei letto lo stesso, anche se ci ho messo mesi a digerire certe parti. Perché, ed entriamo subito nel merito della questione, Irvine Welsh non ti risparmia niente.
Questa recensione – per motivi di spazio e di capacità personali – sarà comunque stringata e non potrà contenere tutte le riflessioni che pure questa raccolta immensa si sarebbe meritata, pagina per pagina. Non sono un’arabista e non sto scrivendo una monografia su questo compendio narrativo immenso ma “Le Mille e Una Notte” è un classico che andrebbe studiato al pari de “La Divina Commedia”, per il suo valore letterario e per il portato storico e culturale che si porta dietro.
Fosse tutto qui il nocciolo del libro, “Moby Dick” sarebbe niente più e niente meno che una storia d’avventura e di mare, dell’infinita lotta fra l’Uomo e la Natura, il Bene e il Male (come da dichiarazione dello stesso Melville), un bel mattone di più di cinquecento pagine dal setting “esotico”.
Il problema – anzi, il lato bello – è che c’è molto di più.