Perché Sidney Poitier era un grande attore e non solo un grande uomo. Nell’estate del 2020 avevo preparato un articolo su La calda notte dell’ispettore Tibbs, film che mi sembrava molto attuale, visto ciò che stava accadendo negli USA in seguito alla morte di George Floyd. Solo adesso finalmente sono riuscita a recuperare quell’articolo dai miei archivi e mi sembra giusto pubblicarlo per celebrare la vita artistica di un uomo onesto, che non è stato solo un bravo attore ma suo malgrado è diventato anche un simbolo importante di lotta e di riscatto.

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[Il 1° Novembre Corriere della Sera ha pubblicato un editoriale firmato da Walter Veltroni: “Perché i manga hanno conquistato i nostri ragazzi“.
In poco più di 800 parole l’ex-sindaco di Roma cercava di spiegare il “fenomeno manga” e provava a capire perché i “nostri ragazzi” sono stati conquistati dall’intrattenimento made in Asia: dai manga giapponesi agli show sudcoreani al k-pop.
Al netto della buona volontà, purtroppo quell’articolo si è rivelato un coacervo di luoghi comuni sul fumetto giapponese e su alcuni fenomeni della cultura pop contemporanea – con improponibili accostamenti fra manga, k-pop e Squid Game, che come unico minimo comun denominatore hanno la provenienza: il continente asiatico.
Seguendo le newsletter del Corriere e notando immediatamente questo articolo, da persona che ama e studia i manga mi sono sentita in dovere di rispondere alla redazione del giornale. Credo fermamente che un giornalismo di qualità debba dare spazio alle voci di chi studia un determinato fenomeno, se vuole fornire risposte chiare e informate.

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“Via Col Vento” è anche un romanzo razzista, si sente dire spesso, e questa caratteristica viene trattata come una nota al margine di una storia imponente che “parla d’altro”. Invece, grattando la superficie di crinoline, terra rossa, “coraggiosi meridionali” e viziate signorine in disgrazia, si scopre che il fulcro del romanzo di Margaret Mitchell è proprio questo.

La sopravvivenza del privilegio bianco.

“Via Col Vento” è un pezzo ben scritto di propaganda confederata. Con la forza di una storia dai toni pesantemente melodrammatici e dai contenuti apparentemente universali (nascite e morti, amori irrealizzabili e relazioni tormentate, fame, guerra, malattie, distruzione e ricostruzione, c’è tutto), Margaret Mitchell ci distrae, mentre ci propina il peggior rigurgito di revanscismo sudista.

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BlacKKKlansman è la penultima opera, in ordine di tempo, del regista afro-americano Spike Lee, uno che è sempre stato molto ma molto incazzato per le condizioni subalterne in cui sono costretti a vivere gli afro-americani. E come dargli torto? Gli eventi delle ultime settimane hanno reso spaventosamente attuali tutte le frizioni, le storture, le ingiustizie, le ipocrisie del sistema sociale, economico, politico, civile degli Stati Uniti.

Hanno reso attuale o forse, più che altro, hanno riportato agli onori della cronaca una situazione che non ha mai smesso di essere attuale. Una situazione patologica che in maniera strisciante – perché media e élite illuminate bianche facevano orecchie da mercante – è sempre esistita da quattrocento anni negli USA e che nemmeno decenni di lotte e agitazioni, dagli anni Sessanta in poi, sono riuscite a risanare.

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Cosa ne posso sapere io della disperazione degli afroamericani, dello spirito delle loro lotte, delle loro rivendicazioni, che da secoli rimbalzano contro il muro di omertà di un Paese che è stato fondato e ha prosperato anche e soprattutto sulle loro spalle di schiavi, trattati come oggetti ed esclusi da ogni diritto? Studiare la storia, approfondire i temi politici, leggere libri a volte non basta.

Bisognerebbe esserci vissuti, in mezzo a quella rabbia, a quella povertà, a quell’emarginazione, per capire fino in fondo. Perciò trovo ipocrita mettermi qui a pontificare di pace e amore, a parlare di non violenza o a fingere di dimenticare che tutte le rivoluzioni che ci hanno portati a questo punto sono nate, purtroppo, anche dal sangue, dalla guerra, dallo scontro violento.

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