L’infinita lotta fra gli uomini e la Natura indifferente
Nello spazio di un istante, i grandi cuori talvolta concentrano in un’angoscia abissale la somma totale di quelle sofferenze superficiali amorevolmente disperse durante l’intera vita dagli uomini più deboli. E così, simili cuori, quantunque assommino tanta sofferenza ogni volta, se gli dèi lo decretano, accumulano nella loro vita un secolo intero di dolore, tutto fatto delle intensità di istanti, poiché anche nel loro centro senza punto queste nobili nature contengono l’intera circonferenza delle anime inferiori.
(Moby Dick | Capitolo 134. La caccia: il secondo giorno)
Ce l’ho fatta.
Dopo quasi tre mesi e mezzo ho finito di leggere “Moby Dick” e adesso mi trovo di fronte al problema di rischiare di impiegare altrettanto tempo a recensirlo perché questo libro è un concentrato di talmente tanti fatti, citazioni, situazioni, storie dentro la storia, nozioni scientifiche, riflessioni filosofiche che è difficile persino riuscire a impostare un discorso di massima.
È stato per me difficile anche superare la prima metà di questo libro, perché non avevo ben capito di fronte a cosa mi trovavo. Mi aspettavo il classico romanzo dell’Ottocento, con una trama ben definita e una successione di eventi che portavano inesorabilmente verso la fine, un andamento narrativo chiaro e via discorrendo. Invece mi sono trovata a sguazzare in un guazzabuglio di generi e stili, che andavano dai radi capitoli impostati come copioni teatrali, alle disquisizioni di natura tassonomica sull’anatomia dei cetacei normalmente cacciati dalle baleniere, per finire con i racconti di baleneria che offrivano sprazzi da reportage su come potesse essere la vita per i marinai allo svoltare dei primi anni Cinquanta dell’Ottocento.
E allora partirei proprio dalla struttura del romanzo e dalla trama, che è assai più semplice e assai più complicata di come usano riassumercela a scuola e in tutte le citazioni di cui la cultura contemporanea è disseminata.
Storia di un’ossessione
Ridotta all’osso la trama di “Moby Dick” è la seguente: c’è un protagonista, Ismaele, che si imbarca insieme al cannibale Queequeeg sulla “Pequod” e fa da voce narrante delle avventure del suo equipaggio e, soprattutto, del suo capitano, Achab, intenzionato a ritrovare la famigerata Balena Bianca (Moby Dick, appunto), che durante una caccia gli ha strappato la gamba con un morso, per ottenere la vendetta che ottenebra la sua mente ormai da anni.
Fosse tutto qui il nocciolo del libro, “Moby Dick” sarebbe niente più e niente meno che una storia d’avventura e di mare, dell’infinita lotta fra l’Uomo e la Natura, il Bene e il Male (come da dichiarazione dello stesso Melville), un bel mattone di più di cinquecento pagine dal setting “esotico”.
Il problema – anzi, il lato bello – è che c’è molto di più. Ho compreso cosa stesse facendo Herman Melville soltanto più o meno a metà della storia, che per me significava il secondo libro, dato che possedevo a casa una vecchia copia uscita in tre volumi distinti con l’Unità più o meno una trentina d’anni fa. Mentre mi perdevo nell’ennesima descrizione della testa del capodoglio, ho smesso di considerare quelli che trovavo capitoli “superflui per la trama” dei filler noiosi e ho cominciato a guardarli sotto una prospettiva diversa.
Ismaele, la nostra voce narrante nonché marinaio alla sua prima esperienza su una nave baleniera, è l’unico di tutta la ciurma a riguardare con rispetto – direi quasi con amore – le balene e ogni capitolo dedicato alla loro anatomia e alle loro abitudini finisce per essere un modo di prendere il lettore per mano e accompagnarlo nel mondo della baleneria fino in fondo, senza soffermarsi soltanto sul lato “umano” di quest’industria marina ma anche sulle “prede” della sua caccia spietata.
A ben vedere la struttura del libro può ripartirsi in tre unità fondamentali:
- la trama di base, ovvero il viaggio da Nantucket, doppiando il Capo di Buona Speranza, per arrivare nel Pacifico, seguendo le tracce della temibile Balena Bianca;
- i capitoli di approfondimento sul mondo della baleneria, i membri di un equipaggio-tipo, i componenti di una nave baleniera, le tecniche di caccia e conservazione dei cadaveri delle balene;
- i capitoli di approfondimento sul mondo delle balene, la loro anatomia interna, le loro abitudini di vita, i loro riti sociali, la loro percezione da parte degli esseri umani nella storia e nella letteratura.
I capitoli si intervallano fra loro in uno stile pieno, gonfio di sottotesti, rimandi e citazioni – bibliche e shakespeariane in primis. A ben vedere se da un lato i toni del racconto sono quasi da epica omerica, dall’altro lato (ma questo credo risalti più nel testo inglese) pare proprio che Melville fosse stato profondamente influenzato nel suo stile dalle letture di Shakespeare che aveva fatto poco prima di intraprendere la redazione del libro. Fatto sta che la lettura stessa di questo libro è paragonabile a una navigazione a vista in un mare che di volta in volta può farsi liscio e facilmente solcabile come in un giorno di sole oppure tempestoso, rigonfio di periodi ampi, privi di un punto che sia uno fino alla fine del paragrafo, e a volte hai bisogno di tornare indietro e rileggere perché rischi di perderti pure tu nel mezzo dei tifoni giapponesi.
È una lettura “difficile” perché questo qui non è un libro che puoi leggere mentre mangi o ti fai distrarre dalla televisione in sottofondo o da una chat sullo smartphone. Ti devi concentrare e dedicare solo al flusso dei pensieri e della narrazione, anzi, a dirla tutta una lettura sola non basta. La prima lettura è quella di orientamento, poi “Moby Dick” andrebbe letteralmente studiato, Google alla mano per andare a ricercare termini marinareschi mai sentiti prima, per capire il senso di certe citazioni, per scoprire quanto delle considerazioni scientifiche ottocentesche a proposito della balena corrispondano ancora a realtà.
Eppure è una lettura coinvolgente, quando smetti di aspettarti un romanzo “normale” e ti approcci a questo libro come un’epopea epica, costruita in maniera tale che ogni storia di mare, ogni analisi dell’anatomia di una testa di capodoglio non fanno che accrescere l’attesa del lettore, ammantare la figura di Moby Dick – questo fantasma che aleggia per tutto il libro ma compare in persona solo nelle ultime venti pagine circa – di un’aura di mostruosa e temibile grandezza, fino a rendere sempre più drammatica l’ossessione divorante e insensata del capitano Achab per un essere che ha auto-eletto a sua nemesi, senza che l’odio sia in alcun modo ricambiato.
In effetti non basta una recensione per raccontare anche solo la superficie di questo libro. Va studiato, come si studierebbe “La Divina Commedia” o un dramma shakespeariano, perché a darsi a una lettura sciatta e rapida si capisce ben poco.
Ma è poi davvero una lotta fra il Bene e il Male?
Qui partono le considerazioni personali.
Ho amato molto “Moby Dick”, soprattutto per un finale che ho trovato meritatissimo. L’ho amato perché, come prevedibilmente mi aspettavo, ho finito per fare il tifo per le balene quasi da subito e l’ampiezza degli approfondimenti che Melville ha dedicato loro mi ha molto soddisfatto. L’ho amato, soprattutto, perché è stato difficile leggerlo e arrivare fino alla fine e riuscire a capirci qualcosa di quello che l’autore stava dicendo è stato appagante, come la stanchezza che ti prende dopo una lunga corsa in cui scopri di avere più fiato della volta precedente.
Melville e chi ha studiato il libro dopo di lui – sicuramente con più accuratezza di quanto non abbia fatto io – parla di questo libro come del racconto di una lotta fra il Bene (Achab) e il Male (Moby Dick).
Non sono tanto sicura di questa considerazione perché, dal mio punto di vista, andrebbero rovesciati completamente i termini. Di Male e di malato in questo libro c’è solo l’ossessione di un capitano di mare che se la prende con una bestia che è andato lui stesso a cacciare e che ha avuto l’unica colpa di difendersi. Di “Bene” c’è piuttosto la rivolta di una Natura che non ci sta a farsi ingabbiare e cacciare e l’astuzia maliziosa di Moby Dick è forse solo l’intelligenza – inaspettata e sottovalutata dagli umani – di un mostruoso Leviatano che ha capito come difendere se stesso e i suoi simili dall’attacco costante degli uomini.
Anzi, a dirla tutta Moby Dick – come qualsiasi entità che rappresenti in genere la Natura – non è né buono né cattivo. È, punto e basta. Esiste e non si cura delle sovrastrutture umane, del disperato tentativo di un capitano vendicativo di dare senso alla menomazione che si porterà nella carne per sempre, di vedere in un incidente quasi mortale un disegno divino che lo vuole drammaticamente opposto al suo peggior nemico. Moby Dick sfugge alla caccia fino all’ultimo secondo e, ciò che dal punto di vista di Achab è anche peggio, rifiuta un confronto diretto con lui finché non si tratta di difendere se stesso dalla caccia, non lo riconosce come la sua nemesi.
Moby Dick e la Natura tutta, detto terra terra, se ne sbattono di questi esseri umani che si imbarcano e vanno a saccheggiare i mari, cercando di dare un senso più nobile ed eroico a quella che è una fatica barbara e pesante, remunerativa solo sul lungo periodo e ricca di rischi.
Eppure è anche questo il bello di un romanzo che racchiude in sé Iliade e Odissea insieme, il viaggio e la guerra, la ricerca per mare e la lotta contro un nemico a lungo assediato, coi pensieri più che con i fatti, nella realtà.
Il bello di “Moby Dick” è lasciarsi trasportare dalle tante considerazioni che Ismaele fa su se stesso, sulla baleneria, sulle balene, sull’andamento del mondo in generale; farsi portare da una narrazione in prima persona che spesso si trasfigura nella terza, mentre il nostro baleniere dilettante spesso si mette sullo sfondo per permettere ad Achab e a Moby Dick di spiccare su tutto. Ismaele si pone, come un ago della bilancia, quasi nel mezzo di questo contrasto, segue Achab senza metterlo in discussione – e lascia che le discussioni dei suoi superiori in comando lo facciano al posto suo – ma ama le balene, questi Leviatani così possenti che, il narratore ne è sicuro, la baleneria non potrà mai portare alla loro estinzione nonostante la caccia intensiva e spietata. Ismaele sta fra l’Uomo ossessionato e la Natura indifferente con le sue consapevolezze misurate ed entusiaste, con i suoi dubbi e le sue speculazioni filosofiche ma senza certezze granitiche a guidarlo nel viaggio.
A differenza di Moby Dick, Ismaele non è parte integrante di un mondo naturale di cui segue i dettami acriticamente ma non è nemmeno sicuro di aver trovato un senso alla sua esistenza nell’odio divorante per un’entità che sempre si sottrae alla sua ricerca e sfugge al suo rampone, un po’ come la realtà sfugge al tentativo degli esseri umani di intrappolarla e trovarle un “verso”.
E quindi?
E quindi che si fa, quando ci si pone di fronte a un classico? Penso che in definitiva l’edonistico “piacere della lettura”, tanto sventolato quando si consiglia un libro contemporaneo a scapito di un mattone complicato, in una lingua arcaica e che parla di storie per noi apparentemente scontate, debba passare in secondo piano, ogni tanto.
Per lo meno, se la vostra voglia è di andare oltre la lettura in sé per sé, di studiare la storia di un pensiero e di una voglia di raccontare che affondano le loro radici nella famigerata “notte dei tempi” dell’umanità, io un classico lo consiglio sempre e consiglio sempre di approcciarsi senza lo snobismo del recensore di Anobii che diede tre stelline a “La Repubblica” di Platone dimostrando, contemporaneamente, di aver mancato il punto della questione e di aver peccato di presuntuosa faciloneria.
“Moby Dick” non è come leggere – e mi mantengo sempre sullo standard di letteratura di qualità – Neil Gaiman o Chuck Palahniuk, non è romanzo classico, non è prima persona asciutta e snella che scorre rapida sotto lo sguardo. “Moby Dick” ti ricompensa solo alla fine, esattamente quando ti trovi davanti la Balena Bianca e alfine giunge il momento dello scontro, ma è una ricompensa che vale la pena le cinquecentoquaranta e più pagine di letture.
C’è davvero tanto in questo classico della letteratura che gioca con la struttura tipica di un romanzo in un’opera di demistificazione costante, saltando dal copione teatrale al passo enciclopedico alla fiaba (perché a questo assomigliano i racconti di baleneria su Moby Dick che di volta in volta vengono riferiti alla ciurma del Pequod fra un gam e l’altro) al reportage in presa diretta della vita di un marinaio su una nave baleniera.
È un mattone impegnativo, da prendere un capitolo al giorno – quando sono quelli davvero lunghi – o al massimo due, non di più. Magari prendersi anche il tempo di studiarselo, quel capitolo. Lo consiglio in generale a chi ami le storie di avventure, dal tono un po’ tronfio e tanto epico, a chi abbia voglia di leggere anche facendo fatica, ché la lettura può essere un passatempo ma può essere anche altro e le due cose possono andare a braccetto oppure no.
Sarà una mezza impresa, alla fine, esattamente come andare alla caccia della Balena Bianca.