Le sue labbra erano rosse, rosse come le fiamme… ─ La rappresentazione LGBTQ+ nel fumetto e nel cinema di animazione giapponese è il primo saggio di Camil Valerio Ristè. Come anticipato dal sottotitolo, il suo oggetto è l’analisi del modo in cui il mondo LGBTQ+ viene rappresentato nei media giapponesi – nello specifico nei manga e negli anime. Un’analisi che non si limita a sviscerare le peculiarità dei titoli più emblematici che hanno come protagonisti personaggi queer ma che risale a monte, raccontando anche la storia delle persone queer nella società giapponese – siano esse uomini gay, donne lesbiche, persone transgender e molte altre sfumature dell’esperienza LGBTQ+ – e le discrepanze rispetto alla cultura euro-statunitense per quanto riguarda la percezione e la terminologia a cui si ricorre per definire l’essere queer.

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Satoshi Kon era uno di quei registi che sapevano davvero raccontare i sogni. Il suo modo di cucire assieme sequenze apparentemente insensate di eventi, ricche di suggestioni, panorami assurdi e visioni orrorifiche, per poi sovrapporle allo scorrere solo apparentemente logico dei fatti reali non era solo non scontato. Era vero, perché chiunque sogni sa che nel mondo onirico i rapporti di causa-effetto si spezzano e le immagini, i suoni, le sensazioni e le paure fluiscono a briglia sciolta.

Paranoia Agent non fa eccezione a questa regola.

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Devilman Crybaby, affidato alle solitamente capaci mani del regista visionario Masaaki Yuasa, veniva stravolto completamente nel tratto grafico e traslato ai giorni nostri. Prometteva di non seguire la strada della “conservazione”, trasponendo pedissequamente le pagine del manga sul piccolo schermo, ma di “innovare”, andando oltre la lezione del maestro per sconvolgere tutte le nostre certezze di spettatori.

Il risultato è, invece, una strana via di mezzo fra adesione alla tradizione e cambiamento di facciata, che consegna agli appassionati un prodotto incompleto, un abbozzo di troppi spunti, che non prende chiaramente posizione su nulla e si rivela carente e arraffazzonato non solo nei contenuti ma anche nell’apparato grafico e nella gestione del ritmo narrativo.

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Ci sono due modi per spiegare cos’è Space Dandy a qualcuno che non l’ha mai visto: le avventure di uno sfigatissimo cacciatore di alieni rari con una passione insana per i bei fondoschiena femminili (un vero e proprio “sommelier della natica”); in alternativa, un viaggio psichedelico attraverso i tipi più ricorrenti della fantascienza e dell’animazione mainstream giapponese.

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“La Resurrezione di ‘F’” promette tante cose, molte più di “Battle of Gods”, che era stato lo strombazzatissimo ritorno al cinema della serie di “Dragon Ball” e aveva poi fatto da rilancio per la nuova, ennesima serie filler che munge ancora dalla grassa vacca che è stata la fortunata serie degli anni Ottanta (sia anime che manga). Il problema è che, nel frattempo, la qualità dell’animazione e delle sceneggiature è peggiorata. Se, nel primo caso, si tratta di un problema sistemico a tutta l’industria dell’animazione giapponese contemporanea; il secondo è frutto di pura pigrizia da parte di sceneggiatori e produttori che sanno quanto vasto e affezionato sia il fandom e soprattutto quanto i nostalgici siano pronti ad affollare le sale per rivivere i ricordi della loro infanzia.

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Da alcuni anni Tunué cura una collana di saggistica, “Lapilli”, che fra le altre cose si occupa anche di esplorare il fenomeno dei manga e degli anime. Essendone io tanto appassionata da averci fatto sopra una tesi di laurea, ho usato più di un libro dei Lapilli per la mia ricerca e, fra questi, c’era “Con gli occhi a mandorla – Sguardi sul Giappone dei cartoon e dei fumetti”.

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