Se sei (come me) un fan di Twin Peaks dell’ultima ora non puoi capire. Non puoi capire cosa significa dover aspettare la bellezza di ventisei anni per scoprire che fine ha fatto Dale Cooper o se Audrey Horne è sopravvissuta all’esplosione nella banca… ma, soprattutto, per goderti il ritorno di David Lynch con pieni poteri sulla sua creatura – via la ABC, via i produttori ficcanaso e incompetenti, via anche il dovere di ammiccare al pubblico a tutti i costi. Sei il regista di una serie che, volenti o nolenti, ha cambiato il modo stesso di concepire e raccontare le serie TV – dimostrando che anche un prodotto per lo schermo televisivo può essere di buona qualità e andare in profondità nel raccontare il meglio e il peggio dell’animo umano.

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Una premessa: non sono una fan dei talent. Non li ho mai guardati, neanche per sbaglio. Un po’ mi danno noia, un po’ non possiedono quella quantità di trash necessario ad attirare il lato più buzzurro di me. A quindici anni ero una fiera e integralista avversaria di quel fenomeno – che faceva tanto da “1984” – dei cosiddetti reality show: arrivò “Il Grande Fratello” e pareva che la decadenza dell’umanità tutta fosse appena cominciata (invece era partita da molto prima e ormai eravamo già alla frutta). A venticinque anni mi sono riscoperta appassionata spettatrice casuale di tutte quelle trasmissioni un po’ casalinghe e molto poco ingenue che passano su Real Time (sia lodato il digitale terrestre), Cielo, Sky. Case in affitto? Patiti degli sconti al supermercato? Matrimoni gipsy? Carinerie per gli ospiti? Sparate un titolo e probabilmente ci avrò dato un’occhiata, salvo i reality che coinvolgono problemi medici e fisici e/o parti dolorosi, il mio stomaco ha un limite di sopportazione oltre il quale il trash diventa horror e addio.

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