Martedì 30 Giugno 2015 io e mia sorella, in piena atmosfera da cazzeggio estivo (no, in realtà lei aveva poco spazio per la baldoria fra un esame e l’altro) ci siamo ritrovate, complici anche la vicinanza del posto alla nostra abitazione, a partecipare come pubblico non pagante ma applaudente all’ultimo giorno di selezioni davanti ai giudici per la nona edizione di X-Factor.
Ora, io non posso fare un resoconto dettagliato di chi ha detto cosa e cosa ha fatto quell’altro. Il programma era registrato, andrà in onda a Settembre su SKY, ci è stato detto che le foto si potevano fare solo fuori o prima dell’inizio della registrazione e guai a chi trasgrediva. E io mi sono resa conto che sono troppo giovane e troppo disoccupata per pagare una terribile multa al signor Murdoch in persona, perché ho avuto la lingua troppo lunga e ho cantato prima del tempo (e pure fuori dal palco).
Però posso fare una serie di considerazioni spicciole, molto personali e molto faziose su ciò che ho visto della famosa “macchina televisiva” in azione e sulle modalità di svolgimento di un talent (almeno in uno dei suoi stadi iniziali).
Una premessa: non sono una fan dei talent. Non li ho mai guardati, neanche per sbaglio. Un po’ mi danno noia, un po’ non possiedono quella quantità di trash necessario ad attirare il lato più buzzurro di me. A quindici anni ero una fiera e integralista avversaria di quel fenomeno – che faceva tanto da “1984” – dei cosiddetti reality show: arrivò “Il Grande Fratello” e pareva che la decadenza dell’umanità tutta fosse appena cominciata (invece era partita da molto prima e ormai eravamo già alla frutta). A venticinque anni mi sono riscoperta appassionata spettatrice casuale di tutte quelle trasmissioni un po’ casalinghe e molto poco ingenue che passano su Real Time (sia lodato il digitale terrestre), Cielo, Sky. Case in affitto? Patiti degli sconti al supermercato? Matrimoni gipsy? Carinerie per gli ospiti? Sparate un titolo e probabilmente ci avrò dato un’occhiata, salvo i reality che coinvolgono problemi medici e fisici e/o parti dolorosi, il mio stomaco ha un limite di sopportazione oltre il quale il trash diventa horror e addio.
Non mi sono mai illusa che quello che vedessi attraverso lo schermo fosse “reale” e ho sempre creduto che questo assioma valesse anche per i talent show. Dopo Martedì scorso, tuttavia, ho potuto dare un’occhiata più approfondita al fenomeno, fino a comprendere quanto fosse costruito e quanto lavoro ci sia dietro un’impalcatura che è molto più massiccia di quanto mi aspettassi. Mi sono poi ricordata che la versione inglese di X-Factor ha lanciato un fenomeno globale come gli One Direction e mi sono resa conto di quanto peso potessero avere i parametri di giudizio di una major, al riguardo di trasmissioni del genere.
È il business, bellezza.
Ma andiamo per ordine.
Cominciamo da una frase, che Elio (sì, proprio Elio degli EELST) ha ripetuto a molti concorrenti, quando dava i suoi giudizi: «Qui noi stiamo cercando la futura popstar italiana».
Trovo che in quella frase Elio abbia riassunto tutto lo spirito dello show e abbia dato un bel ceffone d’orientamento alle mie considerazioni in merito a programmi come X-Factor. Finora, almeno io e le persone con cui mi è capitato di parlarne, ho sempre immaginato che il “talent show” fosse uno spettacolo di talenti, dove solo le persone con la voce migliore (in questo caso) venivano ammesse sul palco a cantare e solo quelle. La realtà è assai più complessa.
Una futura popstar non deve avere una bella voce e neanche particolarmente distintiva, in fondo. Quando i giudici chiedono al concorrente di turno se possieda il famoso “fattore X”; quando lo osservano in azione sul palco; quando tengono conto delle reazioni del pubblico, stanno giudicando se la persona lì presente è in effetti in grado di trascinare le persone. Perché non si riflette mai abbastanza su questo dato di fatto ma i talent show, in quanto show, devono fare audience, devono essere capaci di tenere il pubblico da casa incollato allo schermo (e la media non è quella di esperti del settore musicale o melomani incalliti ma di persone normali, che vogliono solo passare una sera a svagarsi e magari anche emozionarsi per una canzone che sa trasmettere quel qualcosa in più).
Non è lo studente versato in materia né il professionista preparato ciò che serve ma qualcuno che abbia un’attitudine – più o meno spiccata, più o meno costruita – a tenere la scena e mantenere sempre desta l’attenzione dello spettatore. Si cerca il diamante grezzo? Forse ma con qualche avvertenza: il talento canoro può essere ancora da coltivare (e ci saranno sempre i bootcamp per le ulteriori scremature e per ripulire le asperità che potrebbero rendere un concorrente meno appetibile durante la competizione) ma l’attitudine a magnetizzare l’attenzione del pubblico, a imbrigliarla e trascinarla su di sé è qualcosa che l’aspirante concorrente deve possedere di suo o aver maturato negli anni.
Il talent show è un programma che cerca talenti, sì, ma nell’emozionare le folle. È la capacità di suscitare curiosità nella gente che si cerca, di far battere le mani quasi spontaneamente a un pubblico che è stato addestrato solo superficialmente alle reazioni standard da mostrare in tv. Quello che viene detto a chi affolla gli spalti del Palalottomatica è di fare molto, molto rumore quando sul palco sale qualcuno che piace; di sbracciarsi in cori di “quattro sì!” per convincere i giudici a far passare a pieni voti un concorrente (c’è bisogno del parere positivo di almeno tre di loro, per accedere alla fase dei bootcamp); di fischiare e di protestare, quando sul palco c’è qualcuno di antipatico, che infastidisce. Il pubblico ristretto del palazzetto si trasforma così in un campione, assortito in maniera casuale e poco accurata ma abbastanza rappresentativo, della più consistente audience che seguirà lo show da casa e che, soprattutto, sarà poi disposta ad acquistare gli album della futura popstar, a seguire i suoi concerti e a diventare sua fan.
Nulla è lasciato al caso. A voler essere maligni, più che a uno spettacolo sembra di partecipare a un sondaggio d’opinione o, meglio ancora, a un focus group poco consapevole di farne pare e quindi capace di lasciarsi andare alle reazioni più spontanee, quelle che vanno analizzate da chi cerca un nuovo artista di immediato successo. Dopotutto muovere un simile baraccone di personaggi, strutture, operatori e tecnici non è un’attività a costo zero, difficile pensare che chi abbia messo in piedi un talent show lo abbia fatto per puro spirito di mecenatismo. Chi è troppo “originale”, chi fa musica di genere diverso da un certo tipo di pop-rock prediletto dallo show (e più facilmente vendibile al grande pubblico), chi ha fatto i compiti a casa e “si limita” a ben interpretare un brano ma non sa troppo coinvolgere, si vede porre davanti un mucchio di eccezioni e dubbi. Se però il pubblico si affeziona ed è ben coinvolto – e se il concorrente non dimostra eccessiva arroganza – stonare, perdere il ritmo, incepparsi, improvvisamente sono errori passabilissimi perché quel concorrente lì sì che ce l’ha il “fattore X”.
È un lato odioso ma quasi comprensibile, almeno nella logica contemporanea delle etichette discografiche. Costa troppo promuovere la sperimentazione, non rende a breve termine, non incontra l’accettazione di un grosso pubblico il cui palato negli anni si è assuefatto a un riciclo costante degli stessi tormentoni, mentre le major non possono più permettersi – in periodo di crisi economica – di rischiare una perdita, puntando sulla novità sbagliata. Molto meglio restare in acque conosciute di sicuro successo.
Quello di cui si potrebbe fare a meno – o forse no, magari sono io che ho troppa fiducia nell’umanità – è la scelta di ammettere alle selezioni davanti al grande pubblico i “soggettoni”, quelli che non hanno né presenza scenica né talento artistico, solo per inserire la quota “caso umano” con cui intrattenere il pubblico, presente in sala o da casa. Sono quelli di cui puoi ridere solo crudelmente, non con cui puoi ridere perché fanno battute divertenti. Sono quelli messi lì per sollevare l’autostima a tutti, per essere presi in giro. Magari neanche se ne accorgono o magari amano visceralmente la musica a modo loro, ci stanno credendo e si ritrovano un pubblico di scimmie schiamazzanti che su quel palco non hanno avuto il coraggio di salire ma pure si permettono di prenderli in giro.
Ecco, io la necessità di umiliare le persone per fare spettacolo non penso che la capirò mai. C’è davvero bisogno di continuare a fare televisione a questo modo? Possibile che le persone non si facciano attirare da altro che spettacoli patetici?
In tutto questo fenomeno di talent e contro-talent chi non condanno sono proprio i partecipanti allo show. Se c’è un’occasione per mettersi in mostra, non provarci è quasi una bestemmia. In tempi di crisi, in tempi in cui ci viene costantemente ripetuto che tutti dobbiamo trovare una strada per dimostrarci eccezionali e la normalità viene condannata (ho sentito con le mie stesse orecchie dire da uno dei giudici “tu sei una cantante ma non un’artista”, come a dire che aver studiato e avere esperienza ti rende mediocre, se ti manca il cosiddetto guizzo geniale), tanti si sentono attirati da opportunità del genere, che sembrano a costo zero. In fondo non c’è nulla da perdere. È aizzare le folle al disprezzo, all’emozione facile, al bel faccino che ti cattura il cuore al primo occhiolino, che non capisco. Resto sempre convinta che affidare il destino di una persona alle bizze del pubblico, in uno stile che ricorda molto le lotte dei gladiatori in un Colosseo, sa alquanto barbaro.
Dall’esperienza di Martedì scorso ho capito un po’ di più il meccanismo che muove i talent, anche se a questo punto mi riprometto di seguire anche la nuova stagione di X Factor, perché non amo lasciare gli “esperimenti sociali” a metà. Di certo so che il sistema può non piacermi ma in una giornata di caldo torrido avere a disposizione un posto a sedere gratuito, in un ambiente ben condizionato per nove ore di seguito, non è un’offerta da rifiutare così, su due piedi.