“Lo cunto de li cunti” è una raccolta di cinquanta novelle in dialetto napoletano pubblicate fra il 1634 e il 1636 da Giambattista Basile. In modo non dissimile dal “Decamerone”, le storie presenti al suo interno sono unite da una cornice narrativa, che da pretesto per raccontare le fiabe si trasforma, alla fine della raccolta, nella fiaba finale che la conclude.
Da questa raccolta Matteo Garrone ha preso tre racconti, adattandoli in altrettanti episodi: gli eventi scorrono in parallelo, dipanandosi da una celebrazione reale, che fa riunire i protagonisti nello stesso luogo, e confluendo in un’altra celebrazione, che chiude tutte e tre le vicende narrate.
Va detto da subito: il ritmo narrativo de “Il racconto dei racconti” non è quello a cui ci ha abituato il mercato cinematografico contemporaneo. I dialoghi sono pochi, le transizioni, da un passaggio all’altro di una singola storia, nette; le creature fantastiche e le magie a cui i protagonisti ricorrono non vengono spiegate ma presentate allo spettatore come un dato di fatto, che va accettato senza porsi troppe domande. Insomma, è un film girato come sarebbe raccontata una fiaba. Garrone si sofferma molto sui paesaggi stupendi e assolati di zone d’Italia spesso sconosciute (le riprese sono state effettuate fra il Centro e il Sud Italia), che sembrano venire fuori direttamente da una fiaba e contribuiscono a rendere l’atmosfera delle storie sognante, meravigliosa, anche quando le vicende si fanno più cupe e crudeli.
Garrone sembra fare un vero e proprio omaggio al Barocco italiano, con le lunghe riprese sulle feste reali, sui costumi dei convitati, sui cibi assaggiati e sugli intrattenimenti a base di giocolieri, mangiatori di fuoco e animali addestrati. Un omaggio che diventa lo sguardo ammirato dei campi lunghi, che riprendono le meravigliose architetture dei tre castelli in cui i tre regnanti delle storie abitano. Il Castel del Monte ad Andria (dove si svolgono le vicende del racconto “La pulce”) si riconosce subito per la sua caratteristica pianta ottagonale. Con un po’ di sforzo (e una ricerca su Google) si riconoscono poi il Palazzo di Donnafugata a Ragusa (dove abitano i protagonisti de “La Regina”) e il Castello di Roccascalegna in Abruzzo (dimora del re del racconto “Le Due Vecchie”).
Non bisogna ingannarsi, però, perché se atmosfere e girato conferiscono al film un aspetto fiabesco, quasi fuori dal tempo e dalle logiche del mondo a cui siamo abituati, i temi trattati e le vicende impresse sulla pellicola conservano quella crudeltà tipica delle fiabe di una volta, lontane dall’edulcorazione con cui la Disney le ha trasformate in storie “per tutti”. “Il racconto dei racconti”, esattamente come il libro originale, è rivolto a un pubblico di adulti e non risparmia nulla all’occhio: sventramenti, defenestrazioni, agguati, mostri deformi, violenze e abusi, festini per assecondare gli sfrenati appetiti sessuali del re, il film non si fa mancare niente.
E se la modernità è assente nei rapporti fra i personaggi e nelle ambientazioni, che si mantengono fedeli il più possibile a ciò che doveva essere la vita di corte secentesca, riaffiora lì dove Garrone decide di rielaborare i temi delle fiabe che ha scelto. Anche quelle de “Lo Cunto de li Cunti”, come tutte le fiabe, presentano un insegnamento morale, rintracciabile nelle scelte sbagliate e nelle disavventure a cui vanno incontro i protagonisti. Garrone decide di focalizzarsi diversamente sulla trama dei racconti, dividendo l’attenzione della cinepresa su due binari paralleli: le vicende dei tre regnanti, da un lato, e quelle delle persone che subiscono le loro decisioni avventate, dall’altro. Così i temi portanti de “La Regina” si riconducono all’amore morboso e ossessivo di una madre per il proprio figlio e al legame di fratellanza che questi intreccia col suo “magico gemello”, legame messo a dura prova dagli eventi che dovranno affrontare insieme. “La pulce” mostra quanto la sconsideratezza di un padre possa condannare la figlia a subire i contraccolpi delle sue decisioni avventate; dall’altro lato la principessa dovrà fare i conti con la distanza assoluta fra l’amore idealizzato di cui ha letto nei libri e la realtà di un matrimonio sbagliato e strampalato. “Le due vecchie”, forse la vicenda più grottesca e tragicomica fra le tre, mostra bene quanto l’ossessione amorosa di un re donnaiolo possa portarlo a coprirsi di ridicolo, così come dall’altra parte altrettanto ridicolo sembra l’affanno con cui le due vecchie si industriano nel compito impossibile di ritornare giovani.
Il film finisce così per focalizzarsi bene sia sulle radici dei mali che affliggono i protagonisti, sia sugli effetti che i loro comportamenti deleteri hanno su chi li circonda. E un altro grande merito di Garrone è la capacità di alternare le vicende delle tre storie senza mai disorientare lo spettatore. Gli eventi restano sempre ben distinti fra loro, anche grazie alle diverse ambientazioni delle storie, benché la sceneggiatura non lasci alcuno spazio alle spiegazioni. Lo si diceva più sopra: ciò che più colpisce di questo film è il modo in cui gli eventi vengono raccontati. Proprio come in una fiaba c’è poco spazio per il dialogo e l’azione e molto per la descrizione, tanto che “Il racconto dei racconti” dà la stessa impressione di quegli immensi volumi rilegati di fiabe, dove le parole venivano relegate al fondo del foglio e lo spazio quasi interamente occupato da elaborate e coloratissime illustrazioni.
Non c’è da ingannarsi, però: quello di Garrone non è un ozioso lavoro di estetica, non sono immagini vuote quelle che restano nella mente, al termine della visione. Le emozioni e la trama ci sono tutte: ci sono nella bravura degli attori, più e meno giovani, che interpretano reali e annessa prole e popolani; ci sono nelle inquadrature, che passano senza soluzione di continuità dai campi lunghi ai primissimi piani, costringendo lo spettatore a immergersi nei sentimenti dei personaggi, così come si sono persi fino a qualche istante prima nei boschi illuminati o fra le distese assolate che circondano un castello.
“Il racconto dei racconti” lascia un’impressione incantata, una volta che si è superati lo smarrimento di trovarsi di fronte a un film che non ha i ritmi tipici dei blockbuster hollywoodiani, che non spiega fenomenologia e genealogia di ogni evento fantastico, ma fa spazio alle emozioni e ai gesti, rendendo lo spettatore null’altro che questo: un osservatore che cammina all’interno della corte e scopre con lo sguardo le storie di chi la abita. È soprattutto un esperimento molto riuscito di Garrone, che ha saputo adattare un’opera napoletana del Seicento, rendendola accessibile anche a chi di Napoli e del Seicento non sa nulla e confinando la modernità non ai contenuti delle storie ma al suo modo di guardare ad esse.