«Sto morendo, Charles. Continua tu a parlare per me»
Non sto aggiornando granché questo blog ultimamente ma non perché l’abbia dimenticato (ho spregevolmente dimenticato il suo primo compleanno, tuttavia, tanto per tenere fede alla mia tradizione personale), bensì perché mi trovo in quella delicata fase creativa del romanzo in cui non esiste nient’altro a parte la stesura, ergo non esco, non vedo cose, non leggo nulla di nulla e quindi ho ben poco da recensire.
A parte ieri sera.
Ieri sera, 15 Luglio 2016, c’è stato un golpe fallito in Turchia, mentre io me ne stavo bel bella al “Silvano Toti” Globe Theatre di Villa Borghese a guardarmi Gigi Proietti che interpretava l’Edmund Kean di Raymund FitzSimons. E, non vi preoccupate, vi parlerò di Edmund Kean e di Gigi Proietti, non delle implicazioni politiche di quello che è accaduto in Turchia.
Anche se…
Genio e sregolatezza per Edmund Kean, la prima ‘rockstar’ della storia
La Wikipedia definisce Edmund Kean una specie di “rockstar” dei suoi tempi e, per quanto io detesti quando si appiccicano questi termini in modo anacronistico, mi rendo conto che visto il contesto e il personaggio, la definizione non è tanto lontana dalla realtà. Morto a più o meno 46 anni, Edmund Kean del genio folle e sregolato aveva tutto: dipendenza dall’alcool, vita dissoluta, donnine allegre, amanti facoltose, una gioventù passata a seguire sua madre nei teatri, un carattere sanguigno, vendicativo e poco disponibile al compromesso, debiti, malattie veneree, scandali e pure il solito pubblico di benpensanti a contestarlo.
Non sorprende che su quello che viene considerato uno dei più grandi interpreti del teatro shakespeariano – uno che ha inventato letteralmente il modo moderno di recitare, sostituendo alle pose plastiche e pretenziose degli attori dell’epoca, che declamavano più che recitare, uno stile diretto, emozionale, trascinante – siano state scritte non poche opere teatrali. Quella di FitzSimons è l’ultima in ordine di tempo e, benché scritta nel 1983 per l’attore britannico Ben Kingsley, fu a sua volta portata in scena nella cornice del Taormina Film Festival nel 1989 proprio da Gigi Proietti.
Una scommessa, ché il Gigi nazionale era abituato a “ruoli brillanti”, da commedia, non certo a un personaggio protagonista unico e assoluto di una tragedia che mette in luce tutte le miserie umane e lo fa con arte, tirando in ballo i personaggi shakespeariani che ha interpretato e sviscerandosi attraverso le loro debolezze, quelle fatali che li hanno condotti alla rovina.
Eppure, da un articolo dello stesso FitzSimons che all’epoca assisté alla messa in scena, un successo straordinario. Non solo perché, dopo un’iniziale esitazione, Gigi Proietti si immerse nella parte, dando il meglio di sé in quell’interpretazione, ma perché un pubblico di ottomila spettatori (numero che si ripeté per tre serate di seguito) applaudì a scena aperta un’opera su un attore di drammi shakespeariani, non certo una carta conosciuta nel nostro Paese.
E così dopo ben ventisette anni Gigi Proietti ha deciso di riportare questo spettacolo in una cornice che, per quanto più ristretta, gli si addice perfettamente: quel Globe Theatre romano che dirige da sette anni e che, tutto costruito in legno, è un omaggio al primo teatro elisabettiano poi distrutto da un incendio nel 1614.
Come ti trasformo la commedia in tragicommedia
Che devo dire, innanzitutto? Che portare avanti per due ore – ininterrottamente salvo i dieci minuti scarsi di intervallo fra un atto e l’altro – uno spettacolo in cui reciti completamente da solo sul palco e interpreti un personaggio miserando, meschino, un folle alcolizzato e così tronfio da lasciar morire un figlio stesso di fame e patimenti, dopo averlo trascinato ad esibirsi sul palco con te per raccattare soldi, non è semplice.
Anzi, è difficilissimo.
Riuscire non solo a chiudere la serata senza colpo ferire ma pure facendo intuire sul palco la presenza di altri personaggi – invisibili, le persone che hanno attraversato la vita di Kean e l’hanno segnata – muovendosi come se un attimo prima fossi Kean e l’attimo dopo fossi Otello e poi Shylock e poi Amleto e poi il rattrappito e storpio Riccardo III, agitando costumi di scena, arrivando alle vette dell’autoesaltazioni e polverizzandosi sulle ginocchia nella miseria umana più nera, dando prova di grandi doti interpretative mentre ci si racconta attraverso le parole di Macbeth, per poi risvegliare la compassione più misera rivelandosi per il folle ubriacone incapace che al termine di una vita breve ma intensissima Kean è diventato, è un affare che riesce a pochissimi.
E naturalmente Gigi Proietti è fra questi. Non è solo una questione di potenza vocale, di mimica facciale, della capacità di essere Edmund Kean mentre si cerca di convincere il pubblico nel proprio lungo dialogo con esso – perché più che un monologo è questo che l’«Edmund Kean» si rivela essere, un atto di auto-assoluzione e auto-celebrazione di fronte ai membri della giuria più spietata che un attore possa ritrovarsi a fronteggiare – di essere il figlio bastardo di un Lord inglese e un grande perseguitato da maligni e invidiosi. C’è che nell’essere tragico, nel rimandare la tragicità di una personalità tanto spiccata e controversa Proietti non è mai solenne o lo è, a suo modo, solo quando Kean stesso riveste i panni dei protagonisti shakespeariani la cui interpretazione l’ha portato alla gloria.
Ma fuori dalle maschere di Otello o di Amleto – che pure sono parte integrante della sua personalità – il Kean di Proietti si rivela in tutta la sua miserevole tragicità anche quando piange sul corpo esanime del figlio o sulla propria decadenza fisica sempre più drammatica. C’è una comicità quasi feroce e assolutamente impietosa che si dispiega mentre Proietti si mostra al pubblico nelle vesti di questo attore così pieno di sé, mentre suscita compassione e divertimento amarissimo nei confronti dei suoi vizi, dei guai in cui egli stesso si è andato a cacciare fino al collo – nonostante le insistenze con cui cerca di convincere il pubblico di essere stato vittima del destino.
Non c’è esaltazione dell’uomo eppure è esaltante il modo in cui attraverso un essere tanto umano e colmo di difetti la potenza del teatro e soprattutto del teatro shakespeariano venga tutta fuori, come il dramma più comune si trasfiguri in qualcosa di universale, invece di limitarsi a essere una storiaccia di donne, alcool e morte.
Perché c’è l’arte, c’è il teatro, c’è quel «seeing him act was like reading Shakespeare by flashes of lightning» di cui disse Coleridge – sì, proprio quel Coleridge – commentando la potenza evocativa delle interpretazioni di Edmund Kean.
Sono due ore ma passano in un soffio e la malinconia è tale che, a fine spettacolo, dopo cinque minuti di standing ovation, vorresti un bis, perché ormai Kean e le sue insopportabili manie sono diventati di casa, perché Gigi Proietti lo ha fatto diventare una parte del tuo immaginario e tu sei lì, che vuoi sapere di più e non lasciare più le sedie di legno del palchetto.
E quindi?
E quindi è stato uno spettacolo potentissimo, da far amare il teatro ancora di più e dimostrare ancora una volta che di interpreti come Gigi Proietti ce ne sono ben pochi in giro. Penso che in questo 2016 ricco di disfatte e cattive notizie, riempirsi gli occhi e l’anima di tanta bellezza sia stato un balsamo capace di ricordarmi che l’arte fa bene più di qualsiasi psico-farmaco e di qualsiasi traballante riempitivo che vada dal cibo allo shopping compulsivo.
Penso che Gigi Proietti sia ancora più di quanto immaginavo uno di quegli interpreti grandiosi che andrebbe celebrato come merita, perché lui sì che i cinque minuti di applausi scroscianti se li merita tutti, ancora e ancora.