Memorie di un’attrice contro (il sistema Hollywood)
Sono inciampata in Louise Brooks praticamente per caso. Cercavo informazioni per un mio articolo su Humphrey Bogart e ho trovato, in un angolo del web, una trascrizione in font bianco su sfondo nero di un saggio tutto dedicato a Bogart, che smitizzava il celeberrimo protagonista di Casablanca con un sarcasmo tanto pieno di nonchalance da lasciare a bocca aperta.
Lo stile era scorrevole ma con una sfumatura drammatica e ammiccante al tempo stesso, il ritmo era pacato ma incalzante – la trascrizione era dal testo originale in inglese – e l’autrice faceva mostra di conoscere bene i retroscena di un mondo del cinema ancora ai suoi albori. Il saggio si snodava dagli albori della carriera teatrale agli ultimi anni della vita di Bogart – non procedendo in ordine cronologico ma saltando da un evento all’altro per associazione.
Chi aveva riportato questa trascrizione raccomandava agli occasionali lettori di approfondire l’argomento, recuperando il libro da cui era tratta. Il nome di quest’ultimo era Lulu a Hollywood e Roger Egbert, critico cinematografico di chiara fama, lo ha definito uno dei pochi testi davvero indispensabili per capire il cinema.
Il perché è presto detto.
Ritratti impietosi di personaggi famosi (ma con affetto)
Di se stessa Louise Brooks dice di essere incapace di mentire e, ancora di più, di non essere una creatura sociale – difetto che nel corso della sua vita le ha recato più di un problema. “E così sono rimasta,” esclama in una delle prime pagine della sua autobiografia, “nella crudele ricerca della verità e dell’eccellenza, un’esecutrice inumana del falso, un abominio per tutti, tranne che per quei pochi che hanno superato la loro avversione per la verità al fine di liberare qualsiasi cosa sia buona in loro.” Può sembrare una dichiarazione arrogante, detta poi con questo tono istrionico (c’è, effettivamente, qualcosa di teatrale, spettacolare persino, nella scrittura sempre colta della Brooks) ma l’attrice-autrice di questo libro non mente. I sette saggi raccolti in Lulu a Hollywood sono una collezione di strali velenosi e appuntiti che non risparmiano nessuno: amici, antiche fiamme e soprattutto se stessa.
Louise Brooks non è parca nel riconoscersi meriti ma nemmeno nell’attribuirsi limiti. E così come la sua lingua si fa forcuta, mentre sibila contro le grandi major, colpevoli di aver usato e distrutto tanti attori, e contro Hollywood; è anche capace di tributare grande rispetto ai professionisti con cui ha collaborato e di rivolgere pensieri persino teneri a chi è stato vittima di un tritacarne mediatico e lavorativo che non risparmiava nessuno.
I numerosi, irriverenti aneddoti di cui Louise è depositaria sono forse la strada più diretta per addentrarsi nel Sistema Hollywood e afferrare i lati più sordidi, così come i meccanismi fondamentali.
Lulu a Hollywood (disponibile in inglese in prestito per quattordici giorni come copia digitalizzata su Open Library) comincia con l’infanzia di Louise in Kansas e un ritratto – impietoso ma senza rancore – di suo padre, avvocato, e di sua madre, distante e fredda pianista a tempo perso. Ogni capitolo dell’autobiografia, da quelli che si concentrano sulla vita di Louise a quelli che raccontano di famose stelle del cinema, sono ritratti ficcanti e dissacranti non solo dei protagonisti del racconto ma anche della complessa galassia di comprimari – giornalisti, produttori, stuntman, tuttofare, familiari di vario grado – che ruotano attorno a loro.
È così che il capitolo dedicato a Pepi Lederer (“La nipote di Marion Davis”) diventa occasione per offrire un ritratto spietato del magnate della carta stampata, William Randolph Hearst, colto all’inizio del suo declino economico insieme alla sua amante storica, Marion Davis.
Una vita controcorrente
La scrittura agile e caustica di Louise Brooks ha buon agio a selezionare tutti gli aneddoti più significativi per metterli in fila – soprattutto per sconfessare una delle grandi bugie della storia del cinema: quella che vuole che molti attori del muto non fossero in grado di recitare nei film con il sonoro. Come la Brooks spiega, il passaggio al sonoro aveva dato possibilità ai grandi studi cinematografici di tagliare i salari degli attori e costringerli ad accettare le nuove regole o venire cacciati.
La Brooks questo lo sapeva bene: quando nel 1928 se n’era andata a Berlino a girare per Georg Wilhelm Pabst Il vaso di Pandora, interpretando la bella e fatale Lulu, si era rifiutata di tornare alla Paramount per doppiare la sua parte ne Il caso della canarina assassinata. La Paramount aveva affidato il doppiaggio a un’altra attrice e aveva messo in giro voci negative sui confronti della Brooks – dando a intendere che non fosse adatta a recitare parti in film col sonoro.
Con Pabst la Brooks girò due film – il sopracitato Il vaso di Pandora e Diario di una donna perduta – che ben mettono in luce l’aura suadente di scandalo inconsapevole che sempre aveva circondato la sua persona anche nella via reale. Louise tratteggia molto bene il suo rapporto con il regista austriaco e il suo modus operandi nell’ultimo capitolo di questo libro. Così come illuminanti sono le riflessioni sul fenomeno Greta Garbo e sullo sforzo compiuto dalle major americane per soppiantare il modello di donna “perbene” alla Lillian Gilsh con quello della donna seduttrice che l’attrice svedese avrebbe dovuto incarnare.
Insomma, Egbert ha più che ragione a definire questo libro indispensabile. Prima di tutto perché la sua autrice – con quel caschetto corto nerissimo, quel trucco e quello stile – incarnava alla perfezione la flapper degli Anni Venti ed era stata una protagonista del cinema di quel periodo, un mondo che conosce bene e sa raccontare con lucidità.
E poi perché la Brooks è molto sincera. Dopo aver detto addio a Hollywood per sempre nel 1940, nulla la spingeva a usare mezze parole e concedere sconti – né mai si lascia andare a una stucchevole autocelebrazione.
Lulu a Hollywood è così sia una lettura profondamente istruttiva ma anche dannatamente piacevole, specialmente grazie all’indubbio talento per la scrittura che questa attrice (e prima ancora ottima ballerina) così sfrontata e espressiva possedeva.