A onore del film va subito detto che aver affidato nuovamente la regia al suo creatore originale, in questo caso, è significato trovarsi davanti a un prodotto coerente, non un semplice revival del passato. Miller non ha parlato a caso di “rivisitazione”: basta guardare la trama del primo “Mad Max” per rendersi conto che il nostro è passato da protagonista incontrastato a spalla – all’inizio assai riluttante – di altri personaggi; al tema della violenza urbana che dilaga lì dove l’anarchia la fa da padrone, si sostituisce la prepotenza di chi ha il potere di controllare l’accesso alle materie prime e governare la popolazione secondo i propri capricci.

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Ha il sapore di un’opera prima, imperfetta in alcuni punti: l’avvio è un po’ lento, scollegato almeno parzialmente dalla trama principale, e lo spettatore fatica per molti minuti a entrare nel meccanismo della storia. Poi, però, il susseguirsi degli eventi ingrana la marcia e la visione si fa fluida e decisamente più godibile.

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“Plurale Unico” però aveva qualcosa in più e quel qualcosa era negli ospiti – amici e colleghi – che hanno accompagnato Samuele sul palco in una scaletta fatta di alcuni (impossibile citare tutta la sua discografia in due sole ore, purtroppo) dei brani che non necessariamente e non solo sono i suoi maggiori “successi di pubblico” ma sicuramente sono canzoni a cui è ancora molto legato, nonostante gli anni che passano.

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“Youth” non ha smentito l’assioma. Guardare questo film significa essere sommersi da una miriade di colori, suoni, sensazioni e situazioni che rimangono impresse negli occhi e nella mente molto dopo aver abbandonato la sala del cinema. D’altronde il cinema di Sorrentino è anche e soprattutto questo: narrazione per emozioni, più che per eventi legati da un rapporto di causa ed effetto. È un modo di svelare la storia allo spettatore che lascia tanto spazio all’interpretazione personale, al punto che probabilmente non ci saranno due singole persone che potranno dire di aver vissuto e compreso allo stesso modo ogni scena del film.

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Va detto da subito: il ritmo narrativo de “Il racconto dei racconti” non è quello a cui ci ha abituato il mercato cinematografico contemporaneo. I dialoghi sono pochi, le transizioni, da un passaggio all’altro di una singola storia, nette; le creature fantastiche e le magie a cui i protagonisti ricorrono non vengono spiegate ma presentate allo spettatore come un dato di fatto, che va accettato senza porsi troppe domande. Insomma, è un film girato come sarebbe raccontata una fiaba. Garrone si sofferma molto sui paesaggi stupendi e assolati di zone d’Italia spesso sconosciute (le riprese sono state effettuate fra il Centro e il Sud Italia), che sembrano venire fuori direttamente da una fiaba e contribuiscono a rendere l’atmosfera delle storie sognante, meravigliosa, anche quando le vicende si fanno più cupe e crudeli.

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