“Il Libro della Vita” (in originale “The Book of Life”) è un musical d’animazione prodotto, fra gli altri, da Guillermo del Toro e diretto da Jorge Gutierrez, uscito negli USA l’Ottobre scorso ma arrivato qui in Italia solo alla fine di Maggio 2015. È una storia sorprendentemente colorata e melodiosa, piena di vita e di risate, che sa anche mostrare aspetti inediti della cultura messicana e pre-colombiana, senza mai risultare pesante allo sguardo.
Ha il sapore di un’opera prima, imperfetta in alcuni punti: l’avvio è un po’ lento, scollegato almeno parzialmente dalla trama principale, e lo spettatore fatica per molti minuti a entrare nel meccanismo della storia. Poi, però, il susseguirsi degli eventi ingrana la marcia e la visione si fa fluida e decisamente più godibile.
Nonostante qualche pecca qua e là e la sensazione che non tutti e tre i personaggi siano stati esplorati (sensazione giustificata però dall’affermazione di Gutierrez di aver concepito “The book of life” come una trilogia e dunque ogni film si sarebbe focalizzato maggiormente su uno dei tre protagonisti), nonostante a primo impatto alcuni passaggi possano sembrare eccessivamente semplificati, l’impressione che se ne ricava, uscendo dal cinema, è davvero buona. “Il libro della vita” è un convincente film d’animazione, gradevole, comprensibile per i bambini ma apprezzabile anche da parte di un pubblico decisamente più adulto.
I motivi per andare al cinema e apprezzare questo film sono molteplici. Prima di tutto il fatto che esplori la cultura messicana, mettendone in luce le tradizioni legate al culto dei morti e presentandoci un ambientazione differente dal solito quartiere residenziale statunitense, fino a prendere per mano lo spettatore e condurlo in un mondo di miti che non è abituato a conoscere.
In secondo luogo, le musiche: è un film molto musicale, per certi versi ricorda la Disney di un tempo, quella di “Aladdin” o “Pocahontas”, in cui tutte le canzoni erano incastonate nella trama in maniera ragionevole e si rivelavano piccoli gioielli di composizione, canticchiati ancora adesso. In questo caso le musiche sono state affidate a Gustavo Santaolalla (già due volte premio Oscar per la colonna sonora di “I segreti di Brokeback Mountain” e di “Babel”) e sono a dir poco deliziose, né il doppiaggio delude, anzi, è da segnalare l’ottima voce di David Chevalier, interprete di Manolo sia nel recitato che nel cantato.
Una menzione d’onore merita l’animazione: coloratissima, in certi tratti esplosiva, fatta di coreografie da mozzare il fiato. Il concept stesso dei personaggi è, in alcuni casi, superbo (basti citare il design delle due divinità capricciose che scommettono sulla pelle dei protagonisti, la Muerte e Xibalba), molto evocativo, un piacere per gli occhi. È un film che si lascia guardare e che, nel modo colorato di rendere il mondo dei morti, ricorda il concetto già espresso da Tim Burton in “La Sposa Cadavere”. Qui non c’è però nulla del gusto macabro che ricopre tutte le creazioni del regista. Il mondo dei morti è davvero una festa coloratissima priva di ombre, un tripudio di tonalità chiare e squillanti e un omaggio alle tradizioni del “Dìa de los Muertos” di messicane radici. L’aspetto stesso dei trapassati che popolano la terra dei Ricordati ricorda il motivo dei variopinti teschi dipinti sui volti delle persone durante questa festività. E tutto il film, anche in questi rimandi, viaggia su un costante rimando alle tradizioni non solo messicane ma anche maya e azteche (a cominciare dal nome di una delle divinità coinvolte nella storia, lo sleale Xibalba).
Nonostante le piccole imperfezioni cui si accennava più sopra, la trama resta molto compatta e conchiusa in se stessa, pur lasciando baluginare qua e là sprazzi di argomenti e accenni di eventi che allo spettatore piacerebbe approfondire (e si spera che la trilogia venga compiutamente prodotta). Tutti i personaggi hanno la loro occasione di brillare e di ritagliarsi un piccolo spazio sulla scena e, pur essendo Manolo e il suo percorso di crescita i protagonisti incontrastati della storia, c’è spazio perché anche Joaquin e Maria si facciano valere.
In generale le interazioni fra i vari personaggi sono deliziose, molto fresche e divertenti, come l’abbondare di citazioni ad altri film e altre opere (a cominciare dall’omaggio a “Creep” dei Radiohead, la cui melodia viene ripresa dal protagonista per lamentarsi delle proprie sfortune). I momenti che strappano una risata non sono pochi, così come c’è altrettanto spazio per esplorare i sentimenti dei singoli personaggi e i loro drammi interiori. Non sono scontati i loro comportamenti e le loro reazioni, così come è una ventata di aria fresca un personaggio come Maria che, pur trovandosi al centro di un complicato triangolo amoroso, non viene relegata al semplice ruolo di interesse amoroso dei due amici e rivali, né si lascia scegliere così facilmente, quanto piuttosto sa prendere le sue decisioni in autonomia.
È un film leggero e che pure sa strappare ben più di un sorriso e riesce a coinvolgere anche chi non è più bambino, ben curato nonostante le sbavature; un esperimento alla fine riuscito di raccontare una storia d’avventura attraverso i miti di una cultura a noi tutt’altro che familiare, senza mai diventare pomposo e mantenendo sempre una sfumatura di meraviglia e di giocosità fino all’ultimo fotogramma.