Si può dire senza tema di sbagliare che l’ultimo lavoro del maestro sia anche il più cupo, il più viscerale – in ogni senso possibile – il più gotico e il più tormentato. Si sfiorano picchi che neanche nella pur violenta Principessa Mononoke si erano visti e che il fondatore dello Studio Ghibli aveva forse squadernato davanti ai nostri occhi con tanta nettezza solo nel manga della sua Nausicaä della Valle del vento.
Tutto è soffuso e velato di una malinconia quasi mortifera: persino i colori brillanti del cielo e dei prati sterminati; persino le musiche scarne e puntute di Joe Hisaishi, qui decisamente minimalista; persino le immagini più ricorrenti che si susseguono sullo schermo.

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The Super Mario Bros. Movie è sia un film sia un videogioco. Dal film riprende la struttura del viaggio dell’eroe: sceneggiatura suddivisa in tre atti per offrire al pubblico di famiglie e appassionati – target annunciato di questa operazione – un action movie in grado di tenere i loro occhi incollati allo schermo. Del videogioco originario ha i colori, i mondi fiabeschi e soprattutto la capacità di trasmettere allo spettatore la sensazione di frustrazione e soddisfazione che si prova, quando si imparano le mosse giuste per superare ogni livello.

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E la matericità dei personaggi, delle ambientazioni, dei movimenti è il cardine dell’animazione in stop motion di questo Pinocchio. Che è curatissimo, fino all’ultimo dettaglio, e profondamente artigianale. Le espressioni facciali dei singoli pupazzi sono gestite da congegni meccanici, regolabili tramite fori in cui inserire i cacciavite. I pupazzi stessi sono pesanti, spigolosi, pieni di asperità e di imperfezioni. Perché, esattamente come poi imparerà lo stesso Geppetto al termine del suo cammino, l’imperfezione è necessaria a infondere anima e personalità alle cose.

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Immaginate di lavorare per cinque (5) anni alla creazione di cento (100) episodi di uno show animato, di svegliarvi una mattina e scoprire tramite social e siti web del settore che il vostro datore di lavoro ha deciso di cancellare suddetto show senza nemmeno mandarlo in onda, che non riceverete tutti i pagamenti previsti e che anni di sudore e rinunce e talento verranno buttati nella spazzatura, perché un nuovo CEO ha piani grandiosi e rispettare il tuo lavoro non rientra fra questi.
È quello che è accaduto a Julia Pott, creatrice di Summer Camp Island. E non solo a lei.
Ebbene sì, perché il 19 agosto Warner Bros. Discovery (WBD) ha sganciato senza preavviso (o quasi, ma ci torneremo) una bomba non da poco: 37 titoli ─ di cui 25 show animati originali creati per la piattaforma ─ sarebbero stati rimossi dal servizio di streaming di HBO Max. Destino? Sconosciuto.

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Satoshi Kon era uno di quei registi che sapevano davvero raccontare i sogni. Il suo modo di cucire assieme sequenze apparentemente insensate di eventi, ricche di suggestioni, panorami assurdi e visioni orrorifiche, per poi sovrapporle allo scorrere solo apparentemente logico dei fatti reali non era solo non scontato. Era vero, perché chiunque sogni sa che nel mondo onirico i rapporti di causa-effetto si spezzano e le immagini, i suoni, le sensazioni e le paure fluiscono a briglia sciolta.

Paranoia Agent non fa eccezione a questa regola.

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E qui il viaggio è sia traversata fisica che percorso di crescita spirituale. Re Leonzio e suo figlio Tonio, il consigliere Salnitro, il coraggioso orso Babbone, il saggio Teofilo e tutti gli orsi del loro branco conquisteranno qualcosa ma perderanno qualcos’altro durante la loro convivenza con gli umani. L’innocenza, prima di tutto, la spensieratezza e l’immediatezza della vita in mezzo alla natura, barattate con la conoscenza ma anche con troppi vizi, che corrompono i più deboli di loro, quelli più facili a lasciarsi affascinare dai begli abiti e dalle armi astruse.

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Pur sembrando a tratti una vera e propria lista, nello spirito già annunciato dall’introduzione di essere un compendio dallo scopo ordinativo su un argomento che ha visto una letteratura ampia, sì, ma dispersiva, Storia dell’animazione giapponese mi ha catturato fin dalle prime pagine con la sua dissezione precisa e ragionata di tutta la costosa ed elaborata macchina da guerra che c’è dietro uno dei tanti anime che oggi possiamo – anche grazie a Internet – vedere e della cui animazione non sempre perfetta possiamo lamentarci.

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Mario Adinolfi ha detto che “Kung-Fu Panda 3” non va visto, perché propugna le tesi dell’ideologia gender. Al di là del fatto che l’idelogia gender non esiste e chi usa questa locuzione non sa neanche l’inglese, il nostro Marione nazionale ha ben pensato di uniformarsi a un costume molto diffuso in un certo ambito ignorante – del web ma anche dell’era pre-web, abbassate i vostri martelli luddisti – cioè giudicare un film senza nemmeno averlo visto.

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