Oggi vengo da voi portando non calci nei denti e osservazioni puntute ma cuore, fare e forza delle riforme. (cit.)
L’altro giorno (data indefinita che aleggia nella mia vita; è sempre “l’altro giorno” quando mi dimentico di recensire un film appena l’ho visto) io e mia sorella ci siamo portate a casa – previo pagamento – il dvd de “La principessa splendente”, uno degli ultimi lavori di Casa Ghibli. Quello che seguirà è un “loda e imbroda” all’ennesima potenza del film, perché la sottoscritta è grande fan da più di sette anni dello Studio Ghibli quindi, no, dopo non voglio sentire lamentele del genere: «ma Raxi! Me l’avevi paventato come un film grandioso e io invece ho vomitato» (cit.).
Contesto. “La principessa splendente” è l’adattamento cinematografico di un racconto della letteratura popolare giapponese, “Il racconto del tagliatore di bambù”. In questi rispetti è uno dei rari casi di adattamento fedele fino al midollo alla storia e alle atmosfere originali, che però fa l’intelligente sforzo di insufflare nella sceneggiatura un tocco di modernità e sentimento che rende la visione certamente più emozionale.
Ho sempre trovato uno dei punti di forza dello Studio Ghibli proprio questa capacità di emozionare lo spettatore attraverso la “magia delle piccole cose”, senza per forza dover mettere in campo epici duelli (che pure in alcune opere non mancano) e tragedie disumane. Ecco, “La storia della principessa splendente” sa far affezionare e commuovere puntando sul racconto dei più quotidiani e apparentemente banali momenti di vita in un Giappone medievale, intrecciandoli agli aspetti fantastici di quella che resta pur sempre una fiaba. Se così l’esordio del film ricorda quello del più occidentale Pollicino e sfrutta l’occasione per ritrarre un dolcissimo quadretto familiare, che ruota interno all’innaturale rapida crescita di Principessa Splendente (è quello il significato di “Kaguya” in giapponese); la seconda parte del film ricorda quei racconti europei di principesse irraggiungibili che mettono alla prova i propri pretendenti con prove iperbolicamente assurde.
Non vale neanche la scusante che “La storia della principessa splendente” è una storia troppo legata al folklore giapponese, insomma, per saltare la visione del film. Di agganci a un mondo di fiabe a noi più vicine ce ne sono.
Soprattutto c’è Principessa Splendente, con i suoi dubbi, la sua malinconia, quello spirito ribelle e giocoso, che rompe tutte le regole e va contro ogni imposizione sociale, un tratto che – a diversi livelli – affiora in tutte le belle e complesse protagoniste dei film dello Studio Ghibli. Non manca neanche un’altra costante cara allo Studio, quella del rapporto di amicizia e affetto fra la protagonista femminile e il quasi-protagonista maschile della storia, che resta un punto malinconicamente irrisolto della sua vita.
“La storia della principessa splendente” oscilla così fra un ritratto “naturalistico” del periodo storico in cui la narrazione si svolge e suggestioni visionarie da favola pura. Aiuta, in questo, il tratto particolarissimo scelto per l’animazione, che fa il verso alle illustrazioni ukiyo-e dei rotoli di pergamena giapponesi. Tutto il disegno si svolge in un susseguirsi di toni delicati e linee indefinite, che gettano lo spettatore in un vero e proprio “mondo sospeso”, dove gli avvenimenti favolosi sono reali e vivi al pari delle azioni più normali che i personaggi compiono.
Ho provato a fare un parallelo e scavare nella mia mente alla ricerca di un altro film che aveva saputo mostrare con tanta accuratezza – eppure senza sfociare nell’incomprensione e nella pedanteria – le fiabe di un’altra cultura, cercando di rispettarne l’anima invece di stravolgerne i connotati per renderle più appetibili a un pubblico da blockbuster (*coff coff* Disney *coff coff*). Mi è venuto in mente “Kirikù e la strega Karabà”, film d’animazione francese del 1998 che, in questo caso, pescava dal folklore dell’Africa occidentale.
Al pari di quel film e nello spirito delle fiabe di un tempo, “La storia della principessa splendente” non edulcora i temi, non risparmia allo spettatore né la visione della morte né dell’avidità umana ma lo fa in un modo sempre delicato e non esplicito, cosa che rende la storia adatta anche a un pubblico di bambini.
Il valore aggiunto della storia è sicuramente il raccontare attraverso uno sguardo prettamente giapponese, portando lo spettatore in una dimensione culturalmente più lontana dalla nostra ma in un modo così limpido e chiaro che le barriere cadono quasi subito.
Le emozioni a cui “La storia della principessa splendente” fa appello sono, in fondo, universali. La curiosità verso il mondo di un bimbo appena nato, i giochi con i primi amici, l’innamoramento, il dolore del distacco, i dubbi e le remore di fronte a un destino che non accettiamo, l’insofferenza verso regole che non capiamo, i rimpianti per una vita vissuta diversamente dalle nostre aspettative, sono tutte situazioni in cui è facile immedesimarsi anche senza essere una “principessa splendente”.
È un film che consiglio, a chiunque ami le fiabe e i racconti intrisi di un impalpabile e irrimediabile senso di struggimento, che ti afferra allo stomaco e non ti abbandona, fino al più “ingiusto” ma naturale dei finali. È una di quelle piccole perle che non vi faranno rimpiangere di aver passato due ore sul divano, invece che a sbrinare il frigo.