Martedì pomeriggio sono andata al cinema per l’evento di tre giorni (che sono sempre troppo pochi) sull’ultimo film prodotto dallo Studio Ghibli prima della pausa annunciata, “Quando c’era Marnie”.
Basato sul libro “When Marnie was there” della scrittrice inglese Joan Gale Robinson (e considerato da Miyazaki uno dei cinquanta libri che hanno influenzato la sua vita), Marnie è un film molto particolare, particolare per il genere di sensazioni che provoca nello spettatore e per il modo in cui la trama si dipana davanti ai nostri occhi.
Prima di tutto il chi. La protagonista di “Quando c’era Marnie” è Anna, una ragazzina ormai dodicenne che ha più di qualche problema a relazionarsi con le persone, per non parlare degli attacchi d’asma, che la colgono in situazioni di particolare tensione. Per curare questa malattia, la sua tutrice – su consiglio del medico – manda Anna in vacanza da due lontani parenti. È qui, nell’aperta campagna dell’Hokkaido, che comincia l’avventura estiva della nostra protagonista ed è qui che Anna incontra e stringe amicizia con la Marnie del titolo. Dopodiché tutto il film sarà un crescendo di scoperte.
“Quando c’era Marnie” è un film che genera un misto di sensazioni molto diverse fra loro. C’è prima di tutto una certa confusione che permea tutta la narrazione, una confusione che non rende di facile definizione la trama e le atmosfere, che danno alla storia una sfumatura a dir poco onirica. Più che l’elemento fantastico è proprio la dimensione del sogno a risaltare in questo film, ancor più che nei precedenti dello stesso Studio. C’è una commistione costante e fortissima fra il piano del reale e quello dell’immaginario che rendono difficile capire se quello che sta accadendo sullo schermo sia vero o frutto della fantasia della solitaria e triste Anna.
Questo tratto non è necessariamente un male, di per sé, anzi. Se il distacco che si crea può spaesare lo spettatore, può però anche finire per renderlo estremamente sensibile alle emozioni che prova la protagonista, fino a indurlo alle lacrime e a una fortissima malinconia, che non ti abbandona nemmeno una volta che la proiezione è finita e i titoli di coda vanno avanti (a questo proposito, la colonna sonora resta una delle parti più belle di tutto il film).
Nonostante questa continua altalena fra reale e immaginario, in Marnie c’è molto più realismo di quanto non sembri, quel realismo fiabesco e pulito a cui ci ha abituato lo Studio Ghibli, intriso di colori caldi e linee tonde.
Molto reale è il modo in cui viene reso il carattere di Anna, per esempio. La sua chiusura verso il mondo esterno – che lei riassume nella frase «c’è un cerchio magico nel mondo, alcune persone stanno al suo interno, altre sono fuori di esso. Io sono una di quelle che stanno fuori» – non ha nulla di patinato o misterioso. L’apatia che caratterizza i suoi gesti, la visione estremamente negativa che ha di sé, la difficoltà a comunicare normalmente con gli altri sono rese in maniera cruda, vera, la rendono persino antipatica allo spettatore e fanno comprendere bene quanto male si possa vivere sentendosi a disagio in mezzo agli altri. Insomma l’asocialità non è un “problema cool”, come una certa tendenza sul web si ostina a farci credere.
Il merito più grande di questo film, come di tutti i film dello Studio Ghibli, resta quello di saper raccontare una storia. La vicenda di Anna ha un punto di partenza e un punto di arrivo, le sue tribolazioni non restano esercizi di stile. Lo Studio Ghibli continua a ricordare quello che in troppi film, libri e serie tv oggi si tende a dimenticare: la trama non si incaglia in pretenziose circonvoluzioni sul foro interno del protagonista ma non finisce nemmeno per essere una serie di azioni spettacolari prive di un filo logico a connetterle. Non mancano nemmeno quelle che sono le marche distintive di ogni film dello Studio: a cominciare dai paesaggi di campagna, panorami incredibilmente verdi e rilassanti, per continuare con il cibo. Penso che la preparazione e la consumazione del cibo siano due dei passaggi più gradevoli di ogni film dello Studio Ghibli e “Quando c’era Marnie” non fa eccezione. Le tavolate da acquolina in bocca non mancano, così come è attraverso i gesti più semplici e all’apparenza più trascurabili che risaltano l’interiorità dei personaggi e gli effetti delle loro risoluzioni.
Marnie può emozionare oppure no, può convincere o confondere al punto da impedire di entrare fino a fondo nella storia ma resta un buon film, intriso di situazioni complesse, con una trama all’apparenza banale ma con snodi efficaci e intricati. Resta il dubbio se la confusione sia un effetto voluto, per farci sentire fino in fondo ciò che prova Anna, oppure frutto di imperizia da parte del regista, e persino il finale della storia lascia aperte domande sulla reale natura di Marnie.
“Quando c’era Marnie” non sarà forse un capolavoro, ha qualcosa di difficile, un modo di scorrerti davanti che ti costringe a una totale attenzione ma, personalmente, lo trovo un esperimento molto azzeccato e ben riuscito, nonostante i limiti di “comprensione” che presenta. Sta allo spettatore, probabilmente, completare da sé quelli che restano i punti oscuri della storia, per il resto lo Studio Ghibli si riconferma capace di mantenere sempre una buona qualità delle sue opere.
Personalmente, Marnie è un film che mi ha pienamente conquistata e ha saputo stuzzicare le corde del mio cuore abbastanza da ridurmi alle lacrime più di una volta durante la visione. In fondo si tratta di una storia di formazione, di crescita e di cambiamento, che vuole dare speranza, piuttosto che ridursi a un gretto realismo a tutti i costi che, più che essere realista, si rivela solo una comoda scappatoia per chi vuole convincersi che nella vita lottare per stare meglio sia una fatica inutile.
Io non sono il più luminoso faro di ottimismo ma, insomma, uscita dal cinema mi sono sentita un po’ più sollevata e decisamente coinvolta da questa dolcissima e melanconica storia di amicizia che valica persino ogni confine temporale.
Da guardare, assolutamente.