Quanto fa male continuare a sopravvivere
«Scusate ma ho bisogno di un momento per elaborare… io ci sono cresciuto con Wolverine, mi capite?» dice un giovane uomo seduto nella fila davanti alla mia alla fine del film e io lo capisco. Perfettamente.
Perché anche io ci sono cresciuta con Wolverine, sia con quello fumettistico sia con quello cinematografico, e perché il colpo al cuore, a fine film, è doppio – ma che dico, triplo, anzi no, multiplo – e l’elaborazione del “lutto” è così complessa che non riesco nemmeno a piangere.
Che impiego ben due giorni solo per raggranellare i pensieri necessari a buttare giù uno straccio di recensione che sia coerente – per lo meno leggibile da chi mi segue e nel turbinio dei miei pensieri non ci abita quotidianamente.
Un road-trip/thriller fantascientifico/dramma dell’esistenza
Non spenderò troppo tempo a parlare della trama, non perché il film non ce l’abbia – anzi, questo gioiellino è liberamente ispirato a Vecchio Logan, una saga fumettistica uscita negli USA fra il 2008 e il 2009. Prima di tutto una cosa va detto: Logan sfata di brutto il vetusto ma indiscusso assioma che il terzo capitolo di una saga fa sempre schifo.
Se si pensa a quanto sia stata poveraccia la saga cinematografica del mio supereroe preferito di sempre, ci si poteva aspettare solo il peggio. E invece no. Invece dopo Deadpool – sia santificato Ryan Reynolds nei secoli dei secoli – la Fox scopre che i film di supereroi possono essere vietati ai minori, farti incassare un sacco di dindi e fare pure contenti i fan storici. Non quelli occasionali, che entrano in sala per macinare pop corn di fronte all’hit del momento, ma quelli che ci arrivano attraverso il fumetto o che al fumetto vengono indirizzati se, tu guarda un po’, scoprono che le storie di supereroi possono essere più di qualche tutina in spandex colorato e moralismi molto americani sui giustizieri protettori dello status quo.
Logan ha poco del classico film di supereroi – ed esattamente come Deadpool affronta la questione “superpoteri” in maniera più laterale e decisamente più innovativa: se il secondo lo faceva con una bella dose di irriverenza, il primo lo fa con un afflato dolentissimo, tipico un po’ di certi road movie su un protagonista che all’inizio deve perdere tutto e durante il viaggio spogliarsi di ogni preconcetto, per arrivare alla meta – fisica e ideale – completamente cambiato. Prima ancora che thriller – perché l’azione non manca e le botte sono violentissime e soddisfacenti – è quasi noir, nell’accenno disincantato con cui Logan riguarda a una vita fatta di sogni infranti e amici morti e a un presente che non sembra offrire nulla di buono.
E, ok, siamo nel 2029 ma c’è puzza di 2017 ovunque si volti il capo.
Quanto realismo per essere un film di supereroi
Quello di cui vorrei parlare qui è altro, però. Al di là di un immenso Hugh Jackman – unica variabile che rende i precedenti due capitoli della saga per lo meno guardabili – che nel ruolo di vecchio mutante stanco e incazzato, di uomo deluso dalla vita e inaridito dalle sofferenze, dà il meglio di sé; al di là di Daphne Kefee, che interpreta la giovanissima X-23/Laura, fortissima non soltanto negli scontri con uomini alti il doppio di lei ma anche nell’espressività con cui rende un personaggio complesso e muto per buona parte del film; al di là di tutto questo c’è la rassegnazione.
C’è il cinismo, la rabbia, la disperazione, la stanchezza. Questo Logan è forse uno dei Wolverine in cui mi è stato più facile immedesimarmi – e penso di parlare per una bella fetta della mia generazione e delle persone che mi circondano – per il modo vivido in cui rende un certo cinismo, che ha finito per pervaderci un po’ tutti. Logan è stanco, la sua vita sembra essere stata solo un accumularsi di fallimenti e di morti, che gli peseranno sulla coscienza per tutta la vita che ancora gli resta. L’adamantio che costituisce il suo scheletro lo sta uccidendo dall’interno e forse non è solo quel metallo ad avvelenarlo ma anche altro. Come la devastante rassegnazione con cui si lascia vivere, giorno dopo giorno, mentre l’unico motivo che lo tiene in piedi è il vecchio e altrettanto stanco – ma assai meno disincantato – professor Xavier.
E poi arriva lei.
Laura.
Una bambina che a undici anni ne ha già viste di cotte e di crude – un po’ come i bambini che sono nati e cresciuti nelle zone di guerra. Lei la guerra la dovrebbe fare: l’hanno creata in laboratorio, insieme ad altri bambini che non hanno mai conosciuto l’affetto – se non quel poco che le infermiere hanno dato loro – e che vengono usati e soppressi come se fossero semplici armi. Eppure Laura dal laboratorio è riuscita a scappare e, come tutti i bambini, vorrebbe solo trovare un adulto che le insegni a vivere in questo mondo in rotta di collisione, ad amare, ad essere rassicurata.
Perché ha pur sempre undici anni ed è stata buttata su un campo di battaglia contro la sua volontà, convinta che tutto ciò che può essere è un’arma senza cuore e senza sentimenti. Ma lei non ci sta. Ed è doppiamente devastante questo film per tutti i contatti – metaforici ma non troppo – che ha con la realtà: per le vite distrutte di bambini e ragazzini che non hanno chiesto né meritato tutto questo male ma sono costretti a subirlo; per gli adulti – che si dividono fra carnefici, vittime e indifferenti – e che in ogni caso hanno fallito nell’assicurare qualcosa di meglio a chi li seguirà; per l’odore di rassegnazione, penetrante come il puzzo di morte, che permea tutto il panorama scarnificato delle distese desertiche che Laura, Logan e Charles si trovano ad attraversare.
Eppure…
Eppure la speranza trova forma in qualche modo e non ha niente di retorico, anzi, fiorisce dal sangue e dai corpi martoriati di quegli adulti che, nolenti o volenti, devono morire per permettere ai più giovani di sopravvivere: senza di loro, nonostante di alcuni di loro abbiano un disperato bisogno.
E quindi?
Logan dimostra tante cose. Prima di tutto che le metafore, quando vengono impiegate nel modo giusto, possono sbatterti in faccia con molta crudezza la realtà del mondo in cui vivi e del modo in cui ti ci approcci.
Seconda cosa che è così, oggi, che i supereroi vanno mostrati. Non nelle crisi maestose ma vecchio stampo a cui i blockbuster dell’anno scorso ci hanno abituato – con la felice eccezione di Deadpool, che di Logan è il contraltare sarcastico, di commedia nera ma molto meno allegra di quanto non voglia dare a vedere. Non nel dispiego di effetti speciali, geni miliardari e creature super-potenti il cui unico vero problema è non essere più adorati come prima dal pubblico che dovrebbero salvare – mentre gli esseri umani e le loro preoccupazioni se ne stanno ai margini.
Logan dimostra che a volte neanche i supereroi ce la possono fare. Anzi, sempre, se credono di contare solo su se stessi e sulla forza dei loro superpoteri. Perché non bastano più i cazzotti per cambiare una mentalità virulenta come un cancro, che sta facendo marcire tutto il genere umano. Perché lo status quo non si può più proteggere, perché non bastano più i soldi, il glamour e le tute appariscenti.
Per fortuna che c’è Logan. Per fortuna che c’è Laura. Per fortuna che c’è questo film e, si spera, ce ne saranno ancora altri, molto più vicini alla realtà decadente che ci circonda. E molto, molto lontani dalle strombazzature coloratissime e fuori tempo massimo a cui la Marvel-Disney e la Warner Bros ci avevano abituati.