Storia di orsi alla ricerca di se stessi (e di umani che complicano tutto)
In un’epoca in cui dominano i finali affrettati e facilmente concilianti di certo cinema di animazione (e intrattenimento) mainstream americano, il finale aperto e dolceamaro di La famosa invasione degli orsi in Sicilia, privo di fronzoli e ricco di sentimenti sinceri e intensi, spiazza.
È uno spiazzamento piacevole, però, per una storia raccontata con linearità e efficacia da Lorenzo Mattotti, qui all’esordio alla regia ma già fumettista e illustratore di lungo corso. È stata una gestazione lunga, quella dietro l’adattamento animato dell’omonimo romanzo illustrato di Dino Buzzati, un progetto che ha dovuto attendere dieci anni, prima di trovare il supporto di una joint venture di diciotto partner a cavallo fra Francia e Italia. Mattotti ha parlato anche di ritardi nella realizzazione di un film, che ha voluto curare sotto ogni aspetto – dalla sceneggiatura alle voci alla resa dei colori – e il risultato paga.
Paga prima di tutto nei modi in cui nel 2019 si è scelto di raccontare una storia scritta a puntate nel 1945 sul Corriere dei Piccoli, prima, e pubblicata in unico volume, poi. Il film segue una direzione precisa – sfrondando i personaggi secondari e trovando una prospettiva omogenea e coerente che accompagni lo spettatore fino all’ultimo fotogramma. È così che per raccontare le peripezie del re degli orsi Leonzio, alla ricerca del figlio Tonio, rapito dagli esseri umani, si avvicendano prima il cantastorie Gedeone e la piccola Almerina, e poi il misterioso e vecchio orso grigio da loro incontrato in una caverna.
E qui il viaggio è sia traversata fisica che percorso di crescita spirituale. Re Leonzio e suo figlio Tonio, il consigliere Salnitro, il coraggioso orso Babbone, il saggio Teofilo e tutti gli orsi del loro branco conquisteranno qualcosa ma perderanno qualcos’altro durante la loro convivenza con gli umani. L’innocenza, prima di tutto, la spensieratezza e l’immediatezza della vita in mezzo alla natura, barattate con la conoscenza ma anche con troppi vizi, che corrompono i più deboli di loro, quelli più facili a lasciarsi affascinare dai begli abiti e dalle armi astruse.
Si potrebbe fare un lungo discorso sul modo in cui la trama si dipana per gli ottantadue minuti della visione, sul modo in cui le transizioni fra un’avventura e l’altra sono state cucite assieme con fluidità, rendendo il racconto lineare e eliminando le inutili ridondanze, senza sacrificare poesia ed emozioni. In questo aiuta anche la scelta delle voci: molti gli interpreti di eccezione ma tutti disposti a adottare dialetti diversi per caratterizzare al meglio i loro personaggi o a trasformarsi radicalmente. Accade con Toni Servillo e il suo tono profondo e grave, perfetto per il re Leonzio, e Corrado Guzzanti, che con una voce nasale e petulante rende perfettamente le leziosità di Salnitro. E poi c’è il maestro Andrea Camilleri, che dando voce al vecchio orso grigio non fa altro che interpretare se stesso, un grande anziano che ha tantissime storie da raccontare e lo fa con la flemma pacata e rassicurante di un nonno.
Eppure, analizzare le animazioni è forse il modo più efficace per capire fino in fondo il portato artistico e l’efficacia del racconto di La famosa invasione degli orsi in Sicilia. Perché quello di Mattotti è un 2D digitale (che diventa 3D solo in particolari scene di massa o nell’animazione del terrificante serpente marino) voluminoso, brillante, che definisce gli oggetti e i personaggi attraverso le macchie di colore, molto più che attraverso le linee. Il character design, poi, è semplice, privo di fronzoli ma incisivo, di quello che rivela l’anima dei personaggi al primo sguardo: dal sottile mago di corte De Ambrosiis, che sembra quasi uno spaghetto, al tronfio e prepotente Granduca di Sicilia, col suo naso aquilino, la figura esageratamente alta e slanciata e la passione per i tricorni vistosissimi.
C’è il cantastorie Gedeone, grosso e strabordante come una versione benevola di Mangiafuoco, e c’è Almerina, aggraziata e curiosa sia da bambina che nella sua controparte adolescente inserita all’interno della storia, come carissima compagna di giochi di Tonio. Gli altri umani, però, sono di sfondo, piatti e, loro sì, definiti da linee scure, come marionette dell’Opera dei Pupi. Dall’altra parte gli orsi sono tutti un trionfo di volumi squadrati e di sfumature di mogano, tranne che per re Leonzio e la sua corte di fidatissimi: spiccano nelle varie gradazioni della terra di Siena, del castano, del cachi, c’è ogni sfumatura del marrone, come nei tronchi della foresta.
Ai colori Mattotti ha prestato particolare attenzione e sono loro a dare personalità e definizione ai personaggi, attraverso un uso denso delle ombre e dei colori brillanti. Sono loro a donare profondità all’animazione e ai panorami attraverso un compositing dei livelli di sfondo, intermedi e in primo piano, che li fa scivolare gli uni sugli altri, piuttosto che chiuderli in una prospettiva fissa e asfittica.
Ed è anche nell’alternanza di luci e ombre, di definizione netta dello sfondo e del primo piano, di uso “emozionale” dei colori, per definire le ambientazioni e attraverso di esse i sentimenti dei personaggi, che si annida il fulcro tematico e narrativo di La famosa invasione degli orsi in Sicilia. Si tratta di una storia doppia, non solo perché si svolge in due atti: la versione allegra e dal lieto fine, che ricordano gli umani; la versione amara e dai risvolti decadenti, che gli orsi si tramandano come monito sui rischi della convivenza con gli esseri umani.
È una storia doppia, perché si svolge costantemente in bilico fra il mondo naturale e quello civile, il mondo degli orsi e quello degli umani, nettamente distinti dai colori e dai volumi. È una storia doppia persino nella narrazione temporale, perché al presente di Gedeone, Almerina e del vecchio orso grigio si alternano i flashback della “storia vera e propria” sull’invasione. E forse la scena che più di tutte riassume questa dualità – i fasti della favola degli umani e le amarezze della cronaca degli orsi – è quella dell’assedio e espugnazione della città, in cui abita il perfido Granduca e in cui Tonio viene tenuto in cattività.
Qui Mattotti sovrappone, nella forma di un meraviglioso e coloratissimo viaggio psichedelico, le immagini della battaglia a quelle delle esibizioni degli artisti circensi: e così i palloni leggeri lanciati dalle foche diventano le palle sparate dai cannoni dei soldati; i salti degli equilibristi diventano quelli degli orsi e dei soldati umani, che si affrontano sul perimetro delle mura. La festa del teatro con le sue colorate esibizioni si fa metafora dei combattimenti e ne nasconde il tumulto, come un velo sottile che da un momento all’altro minaccia di essere strappato via – come poi accade, quando Leonzio e i suoi irrompono nel teatro.
Insomma, La famosa invasione degli orsi in Sicilia è uno di quegli esperimenti riuscitissimi, non solo di recupero di una storia che, coi dovuti aggiustamenti, ha ancora tanto da raccontare al pubblico di bambini e di adulti di oggi. È anche un prodotto artistico, che sa sfruttare la forza della macchina dell’animazione in modo diverso e non scontato, che sa coccolare lo spettatore con scenari magici ma anche atterrirlo e rattristarlo, quando la trama ci costringe a un doloroso bagno di realtà. Non ci sono soluzioni facili né scontate, c’è invece una dichiarazione d’amore, verso la Sicilia, verso le belle storie, verso il gusto di raccontare per comunicare emozioni e non soltanto per vendere merchandising natalizio.
Un film che merita di essere visto e di essere discusso, mentre ognuno decide qual è la sua versione preferita del sussurrato mistero, che alla fine della storia il vecchio orso grigio decide di svelare solo alla piccola Almerina.