Con Il Libro della Giungla, però, devo dire di essermi perfettamente ricreduta, non solo per il modo in cu la trama ha saputo intrecciare le ispirazioni del cartone animato del 1967 alla lettera dei racconti di Rudyard Kipling, ma anche per la bravura degli interpreti coinvolti. O meglio, dell’interprete e dei doppiatori.

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Mario Adinolfi ha detto che “Kung-Fu Panda 3” non va visto, perché propugna le tesi dell’ideologia gender. Al di là del fatto che l’idelogia gender non esiste e chi usa questa locuzione non sa neanche l’inglese, il nostro Marione nazionale ha ben pensato di uniformarsi a un costume molto diffuso in un certo ambito ignorante – del web ma anche dell’era pre-web, abbassate i vostri martelli luddisti – cioè giudicare un film senza nemmeno averlo visto.

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Devo dire che la scena col furgone mi ha fatto effettivamente ridere ma soprattutto che Tom Hardy non mi ha deluso per niente, anzi. Non esagero se dico che è stato la colonna portante di un film che si inserisce in quella che sembra essere una lunga agiografia di questi due gemelli “leggendari” nella storia inglese degli ultimi sessant’anni. Non è il primo film in merito alla vita travagliata dei gemelli Kray, è l’adattamento di una biografia curata da John Pearson quando Reginald e Ronald Kray erano ancora in attesa di vedersi comminare la pena definitiva, è una produzione inglese e questo forse spiega anche la sottile aura di mito che, nonostante tutto, circonda le vicende di questi due pericolosi gangster.

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Enzo Ceccotti è un ladruncolo, che abita in un appartamento scalcagnato in un brutto palazzone a Tor Bella Monaca, campa di rapine, vive solo e soprattutto isolato da tutti, in uno stato di abbrutimento in cui tutta la sua vita ruota solo attorno ai vasetti di yogurt e ai dvd porno – che consuma in entrambi i casi in modo compulsivo. Enzo non tiene a nient’altro che a se stesso e vive sprofondato in quello stato di apatia tipico di chi non vede alcuna via d’uscita a una situazione di profonda disperazione.

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“Zootropolis” aveva invece tutte le carte in regola per potermi stupire positivamente. Animali antropomorfi, una realtà alternativa, una trama da noir che faceva intravedere quel famoso “doppio livello d’interpretazione” che rende certi film apparentemente per tutti ma sotto sotto per adulti, perché solo se hai una certa età capisci gli ammiccamenti e soprattutto alcuni dei messaggi più sottili della storia.

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Sì. Lasciando da parte il fumetto, che non tutti conoscono, anche nel film Deadpool mantiene intatte le sue caratteristiche di insopportabile bastardo logorroico senza codice d’onore (o con un codice d’onore tutto suo, che differisce molto dalle regole del vivere comune, ognuno la veda come vuole, anche l’immoralità ha una sua etica di fondo, alla fine) e soprattutto è un mercenario che combatte per se stesso e non risparmia i suoi nemici.

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Insomma, “Zoolander 2” sta subito sul pezzo e a questo giro si concentra sule ossessioni di questi ultimissimi anni: da Justin Bieber, che deve assolutamente farsi un selfie prima di tirare le cuoia e la morte può attendere, mentre sceglie il filtro più giusto per postare la sua faccia su Instagram; a Derek stesso, che si ficca in un incidente stradale con il figlio per farsi una foto col bastoncino dei selfie; da Don Atari che parla contraddicendosi da solo a un mondo della moda sempre più esasperato nel tentativo di stupire un pubblico ormai assuefatto a qualsiasi bizzarria.

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Chi ha letto la mia recensione precedente, sa che “Welcome to Night Vale” è una serie in podcast che va avanti dal 2012 con cadenza bisettimanale e racconta – sotto forma di bizzarra trasmissione radio – le vicende di quella che potrebbe essere una qualunque cittadina americana, non foss’altro che a Night Vale accadono le cose più bizzarre e, quel che è ancora più interessante, tutti i suoi abitanti sembrano considerarle perfettamente normali (sì, anche la presenza di minacciose Nuvole Risplendenti, una Polizia Segreta dai metodi piuttosto sbrigativi, inquietanti Vecchie Senza Volto che ti riorganizzano l’armadio mentre tu volti loro le spalle e via discorrendo).

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Ultimamente vedo solo film che mi deludono (non è vero, l’altro giorno ho visto “Furyo” e mi è piaciuto da morire ma ve ne parlerò in un’altra recensione). In questo caso andavo al cinema in un misto di aspettativa per la presenza di un certo personaggio e la consapevolezza che sarei rimasta delusa di nuovo, visto l’andazzo che aveva ormai preso la terza stagione di “Sherlock” (e nonostante quel brillante terzo episodio che si faceva quasi perdonare quello che precedeva).

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Perché questo cappello? Perché se “Star Wars VII: Il risveglio della Forza” fosse stato un film totalmente nuovo, una saga di fantascienza lanciata nel 2015 dal titolo di “Residents Quarrels: Il risveglio dell’Amministratore” mi sarei limitata a dire che era un film bruttino, senza infamia e senza lode. Avrei detto che non brillava per originalità, che aveva qualche spunto interessante, e che avremmo aspettato il seguito per vedere se con un’altra tranche da 200 milioni di dollari la Disney riusciva a ingaggiare uno sceneggiatore decente, un regista coraggioso e una gabbia in cui rinchiudere i produttori, troppo loquaci quando si tratta di piazzare pubblicità occulta per il marketing di pupazzi pre- e post-visione del film evento.

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