Ti basta un piccolo attore di talento e tanto CGI e il film servito avrai
Devo dire che su questo film ero partita un po’ prevenuta. Parto sempre prevenuta quando si parla di remake, reboot, sequel a distanza di vent’anni e simili, perché il concetto che c’è dietro è sempre più sfruttato a scapito della possibilità di aprirsi a nuove idee e sperimentare: fare soldi facili contando sull’effetto nostalgia, che catturerà comunque una parte del pubblico – ormai sempre più invecchiato – e tirarsi dentro il pubblico ancora giovane sulla scorta di successi già comprovati.
L’esteso programma di live-action da qui al 3100 d.C. in cui si è lanciata la Disney mi aveva già fatto borbottare abbastanza, né le prime due prove mi avevano convinta granché. Maleficent mi era piaciuto molto ma era stato uno stravolgimento della fiaba che aveva raccontato tutt’altra storia, in fondo; Cenerentola mi aveva semplicemente annoiato, non solo perché riproponeva in maniera pedissequa la rivisitazione della Disney senza aggiungervi molto ma perché Kenneth Branagh stesso sembra avere i suoi problemi con la regia cinematografica.
Con Il Libro della Giungla, però, devo dire di essermi perfettamente ricreduta, non solo per il modo in cu la trama ha saputo intrecciare le ispirazioni del cartone animato del 1967 alla lettera dei racconti di Rudyard Kipling, ma anche per la bravura degli interpreti coinvolti. O meglio, dell’interprete e dei doppiatori.
E andiamo a incominciare!
La trama in breve
La trama del live-action rispecchia in parte quella del cartone animato: Mowgli, minacciato dalla tigre Shere Khan, intraprende un lungo viaggio insieme alla pantera Bagheera, nella speranza di raggiungere il più vicino villaggio degli umani prima di essere catturato e barbaramente ucciso.
Se nell’intermezzo incontrerà, nell’ordine, il pitone Kaa, l’orso Baloo e il gigantopitecus Re Luigi (qui ri-adattato in un più fedele King Louie), è il modo in cui la vicenda comincia, le suggestioni che intessono i diversi incontri e il finale inaspettato che cambiano le carte in tavola.
Il film comincia in medias res, con la pacata voce narrante di Bagheera che ci introduce alle avventure di un anomalo abitante della giungla, il cucciolo d’uomo Mowgli. Mowgli ha un grande problema: pur essendo cresciuto nel branco di Akela, allevato dalla lupa Raksha insieme agli altri cuccioli, è umano e in quanto umano cresce più lentamente e non ha tutto il corredo di pelo, zanne e artigli che lo rende veloce ed efficiente nella caccia quanto i suoi fratelli.
A peggiorare la situazione, durante la siccità – quando tutti gli animali della giungla si radunano attorno all’unica pozza d’acqua per bere, rinunciando a cacciarsi in quel periodo che viene denominato “Tregua della Pace” – si ritrova davanti la tigre Shere Khan, che porta ancora sul suo volto gli sfregi del fuoco con cui è stata bruciata da un essere umano che aveva attaccato. La tigre giura vendetta a Mowgli, che ha l’unica colpa di essere umano, ma decide di rispettare la legge della giungla e aspettare la fine della siccità e della tregua, prima di intraprendere la sua caccia mortale.
Per evitare problemi al suo branco, Mowgli coraggiosamente decide di abbandonare la protezione di Akela e di Raksha e si incammina insieme a Bagheera alla volta del villaggio degli umani. È durante il percorso che sarà precipitosamente costretto a separarsi da lui, quando Shere Khan tenderà loro un agguato, ed è così che comincerà a vagare da solo nella giungla – da un lato costretto a ricorrere ai suoi “talenti umani” per sopravvivere e dall’altro trovandosi così a conoscerne i molteplici e curiosi (a volte anche pericolosi) abitanti.
Non è però la necessità di riportare Mowgli al “luogo da cui proviene” a informare la trama, perché è la giungla e la sua vita a diventare protagonista e Mowgli stesso dovrà scoprire come farne parte senza danneggiarla, come potrebbe accadere attraverso l’incauto uso del famigerato “fiore rosso”.
Trovare il proprio posto nel mondo
I lati positivi di questo film si possono distinguere fondamentalmente in tre categorie: tecnica, attoriale e del concept stesso della trama.
Da un punto di vista tecnico ci si trova sicuramente di fronte a un ottimo impiego del CGI e di tutte le più moderne tecniche di ripresa – dalle immagini fotorealistiche alla motion capture – perché i panorami del film, grazie anche a una serie di riprese e inquadrature azzardate e tutt’altro che scontate, sono estremamente realistici; gli animali stessi ritratti nel film non solo sembrano animali veri ma sono altresì molto espressivi, un’espressività che le voci scelte per loro non fanno che aumentare. Il ritmo stesso impresso al film è sostenuto ma non affrettato né superficiale: l’avventura di Mowgli segue una sua direzione precisa, senza divagazioni, ma tutto il viaggio è sfruttato per introdurre lo spettatore nel mondo della giungla indiana in cui il bimbo vive con la sua famiglia animale. Non c’è spazio per siparietti gratuiti o battute fuori contesto, anzi.
Anche i momenti esilaranti – e qui ci spostiamo sul lato attoriale – sono incastrati nella storia al momento giusto, senza eccessi ma donando al film quel giusto pizzico di leggerezza che lo rende pur sempre una storia per tutti, ma ben confezionata e dai toni generalmente seri. Non posso testimoniare per la versione anglofona, ma nella versione italiana l’uso di voci “d’autore” (niente Youtubers o comici situazionali del momento) di grandi attori e interpreti, come Toni Servillo, Neri Marcorè, Giovanna Mezzogiorno, Violante Placido e Giancarlo Magalli (non nuovo al doppiaggio, sua era la voce di Filottete in “Hercules”) ha dato molta profondità ai personaggi. Se da un lato Magalli sembrava quasi irriconoscibile per la serietà con cui ha doppiato il temibile King Louie, avido di conoscenze e mastodontico nella stazza, Neri Marcorè ha contribuito a rendere Baloo a dir poco esilarante, senza far rimpiangere il suo omologo animato ma adattandolo al contesto “realistico” del film. E che dire di Toni Servillo, che non ha solo reso Bagheera la serissima, autorevole e molto paterna pantera nera a cui siamo abituati ma è anche stato un’ottima voce narrante di tutta la vicenda?
A stupire, più di tutti, è il giovanissimo attore che interpreta Mowgli, però. Neel Sethi è qui alla sua prima prova d’attore e, nonostante gli appena dodici anni di età, ha saputo essere espressivo e dare al suo Mowgli quel giusto mix di spirito, curiosità e ingegno che caratterizzava il giovane cucciolo d’uomo cresciuto nella giungla. Il suo compito era ancora più difficile, dato che è l’unico attore in carne e ossa a dominare la maggior parte di un film che è praticamente girato in solitaria in una selva di animali ricostruiti in CGI, eppure ci è riuscito, con una bravura e una spontaneità che mancano a molti suo omologhi ben più adulti.
E infine il concept. Ciò che più mi ha stupito positivamente del film, a parte il riuscito tentativo di restare più aderenti ai libri di Kipling, è l’aver ridato una dimensione più propriamente indiana alla storia. Siamo lontani dai gruppi di avvoltoi che si fanno parodia dei Beatles, dagli elefanti che fanno il verso a vecchi colonnelli americani ormai in pensione, la giungla adesso ha una sua dimensione più compiuta. Si nomina la legge della giungla, ci sono gerarchie precise in cui i vari animali si incastrano, e se Baloo è sempre il simpatico outsider molto mangione e fannullone che conosciamo, la vita nella giungla non è più vista come un’alternativa giocosa a quella del regno umano, come se l’anarchia e la pigrizia vi dominassero. Non è una fuga dalla realtà, insomma, quella di Mowgli che rivendica la sua appartenenza al branco, quanto il complesso tentativo di un bambino di voler trovare il suo posto nel mondo, anche se questo significa dover diventare un’eccezione.
Sono lontani i discorsi del genere “devi tornare da dove sei venuto”, il luogo in cui Mowgli è cresciuto finisce per contare – per lui e per tutta la narrazione – ben più delle sue radici. E forse il vero insegnamento sta nel trovare un equilibrio con queste ultime, imparando a essere un componente della giungla a modo proprio, perché se è vero che Mowgli non può essere un lupo, questo non gli impedisce di continuare a vivere in mezzo a loro.
E quindi?
E quindi Il Libro della Giungla è un film godibilissimo anche e soprattutto per gli adulti, ha una trama pulita ma ben curata, una recitazione accorta e un finale non scontato.
Chiunque fosse fan della Disney e avesse amato la versione animata di questa storia, troverà sicuramente modo di apprezzare anche il live-action, perché gli ammiccamenti alle vecchie canzoni, ad esempio, e a tutta una serie di headcanon a cui il film del 1967 ci aveva abituati non si sono persi per strada.
È un film che si può vedere in famiglia ma anche da soli – tanto è in live-action e si vince anche la vergogna, se pure ce ne fosse bisogno di provarla, di essere al cinema a guardare un film per tutti. Non si corre il rischio di annoiarsi, nell’ora e mezza trascorsa in sala, e i panorami della giungla meritano davvero tutta la visione al cinema.