E se Il Signore degli Anelli fosse un’opera di propaganda scritta dagli Elfi, i veri cattivi della Terra di Mezzo?

The Last Ringbearer_Cover

Il Mondo è Testo” esclamano, più di una volta, i protagonisti de “L’Ultimo Portatore dell’Anello”, quello che il suo autore, Kirill Yeskov – ricercatore universitario russo di paleontologia e aracnologo – definisce uno “scritto apocrifo” del capolavoro di J. R. R. Tolkien: “Il Signore degli Anelli”.

“Apocrifo”. Yeskov usa proprio queste parole per descrivere il suo lavoro… o, perlomeno, questa è la traduzione che dal russo ne fa Ysroel Markov, che ha messo mano all’opera originale per renderla fruibile anche nel resto del mondo. “Apocrifo”, come se questo scritto fosse un vangelo non canonico e raccontasse una verità diversa, non accettata e persino considerata eretica dalla gerarchia ufficiale, che conserva e interpreta i testi sacri. Come se il lavoro di Tolkien fosse una sorta di Bibbia – e, a giudicare dall’atteggiamento infatuato dei fan duri e puri delle opere del professore di filologia anglosassone, forse la scelta di parole non è del tutto errata.

The Last Ringbearer” è stato riguardato da molti fan come un affronto, una macchia, un’operazione indegna ai danni del capolavoro finale. Non ci occuperemo di loro, né delle loro reazioni esagitate, però, ma ci concentreremo solo sul testo di Yeskov. Che, per usare un lessico meno aulico e meno carico di sottintesi religiosi, è una fanfiction – un lavoro trasformativo. Yeskov ha preso una storia da molti considerata perfetta e intoccabile – così come da altri odiata e contestata – e, da estimatore “agnostico”, ne ha ribaltato completamente le prospettive.

Consegnandoci un racconto interessante non solo nell’idea di partenza ma anche nell’esecuzione.

Guai ai vinti, che non possono tramandare la loro storia

Lo spunto per “The Last Ringbearer” (che può essere scaricato gratuitamente da questo post del blog su livejournal del suo traduttore) è il seguente: e se “Il Signore degli Anelli” fosse un resoconto falso e tendenzioso delle guerre che hanno travagliato la Terra di Mezzo? E se Gandalf fosse un maneggione, miope e assetato di potere, intenzionato ad annientare la nascente potenza industriale di Mordor per mantenere Arda nell’ignoranza, schiava di credenze magiche oscurantiste? E se gli Elfi fossero una sorta di sinistra potenza dittatoriale, non dissimile dall’Unione Sovietica? E se Aragorn fosse solo un burattino nelle mani di questi ultimi e Arwen un elfo interessato soltanto a usarlo, per mantenere il controllo su Gondor?

E se “Orchi” fosse un termine spregiativo per indicare il vero popolo di Mordor, gli “Orocuen”, che hanno l’unica colpa di provenire dalla zona sbagliata della mappa e per questo sono vittime di pregiudizi e ghettizzazione? Ma soprattutto: la mappa di Tolkien si ferma lì, all’Eriador, a Gondor, a Mirkwood, a Mordor. Più a Est e a Sud ci sarebbero Umbar e Harad, luoghi che al professore non è mai interessato approfondire, nel suo lavoro di demiurgo alle prese con la creazione di un mondo fantastico, che ha molto a che fare con l’immaginario della mitologia e dell’epica nordica e germanica (con una spruzzata di cattolicesimo, nonostante il professore fosse avverso alle allegorie e a riferimenti troppo diretti alla religione, di cui l’amico C. S. Lewis aveva a suo dire abusato nel suo “Le Cronache di Narnia”).

Kirill Yeskov è ripartito da lì e anche dall’ossessione luddista di Tolkien, dal suo disprezzo per tutto ciò che è industria e progresso tecnologico, da quella nostalgia per un’Arcadia contadina, artigiana e anglosassone, di cui la meravigliosa Contea, abitata dai pacifici e rubicondi Hobbit, è il sunto perfetto. Yeskov è specializzato nelle scienze naturali, non nella linguistica, ed è poco attratto dai miti ma molto più dalla real politik. Seppure cerchi di evitare accuratamente le associazioni 1:1 con la realtà e le rappresentazioni stereotipate (quest’ultimo tentativo non sempre riesce), i riferimenti a questa o quella situazione politica del nostro mondo ci sono, sono dichiarati e investono il testo di una ventata di modernità e di sfumature grigie, che cancellano la patina epica e fiabesca del testo originale.

 “The Last Ringbearer” assomiglia molto a una spy story, ambientata in un mondo fantasy medievaleggiante. Non ci troviamo di fronte a un prodotto high fantasy, un’epica contemporanea con parecchi riferimenti – e un preciso registro linguistico – che fanno pensare a opere come “Beowulf” e “La canzone dei Nibelunghi”. Tolkien parlava dalla prospettiva di un uomo che aveva vissuto sulla sua pelle due guerre mondiali, aveva visto i Grandi Imperi Centrali cadere, il nazismo infestare l’Europa e una cortina di ferro dividere in due il mondo. Yeskov dall’altra parte della cortina ci è nato e vissuto, ha visto un altro mondo e si è nutrito di altre suggestioni e di altri testi. Nella seconda appendice di “The Last Ringbearer” spiega la sua passione per i testi “apocrifi” e, in generale, per tutte quelle opere che rileggono – anche in chiave satirica – miti, leggende e grandi capolavori della letteratura (fra gli altri cita “Uno Yankee alla Corte di Re Artù” di Mark Twain).

Il background è importante per entrambi gli autori, perché necessario a capire il motivo di un tale rovesciamento di prospettive. C’è un’esigenza narrativa nettamente diversa ma nessun intento polemico da parte del ricercatore russo, spinto piuttosto dal desiderio di “dire la sua”, di riempire un vuoto che pure esiste nel mondo di Arda, coerente con le regole dell’epica e dell’high fantasy ma non con quelle della geologia e della geopolitica, come Yeskov stesso sottolinea (non che questo, a suo dire, renda “Il Signore degli Anelli” meno valido).

È così che Yeskov crea un mondo – orientale e meridionale – che è ricchissimo di riferimenti all’Antica Costantinopoli e alla Serenissima Repubblica di Venezia, alla Spagna e ai Saraceni (è questo, la sua Umbar, un melting pot di suggestioni pescate da tutti i popoli che si affacciano sul Mediterraneo). È così che Khand ricorda i califfati che costituivano l’Impero Ottomano e Harad, la terra degli Haradrim, un pezzo del continente africano nel suo complesso. Yeskov si prende anche il suo tempo per lunghe digressioni nel corso del testo – in questo rispettando il dettato tolkeniano – per raccontare i sommovimenti politici che hanno caratterizzato il consolidarsi di questi imperi e dell’assetto geopolitico della Terra di Mezzo ai tempi della Guerra dell’Anello.

Non sempre spicca per originalità – e certe descrizioni di Umbar e degli Haradrim hanno un sentore di stereotipo ben avvertibile – ma il ricercatore russo sa raccontare la sua storia. Non lo farà con la finezza poetica di Tolkien ma il suo stile è ricco di metafore e lineare, si bilancia fra la necessità di essere evocativo e una spigliatezza che rende “The Last Ringbearer” molto vicino al lettore. Le vicende di Haladdin, Tzerlag e del Barone Tangorn, i tre protagonisti del suo racconto apocrifo, sono molto più ricche di storture, sotterfugi, tradimenti, molto più sfumate di tutti i colori che non erano ammessi in un racconto epico che divideva il mondo in Luce e Ombra. C’è spazio per gli intrighi di corte e persino per il sesso – accennato più che mostrato – per la pochezza umana, per le meschinità e per tutta quella serie di orpelli che sporcano Arda di una mondanità che le mancava.

O che, per meglio dire, Tolkien non era interessato a ritrarre.

Come non era interessato a riportare la versione degli abitanti di Mordor e di tutti coloro che abitavano a sud di Gondor.

Un mondo ancora e sempre diviso in due

Yeskov, in fondo, mentre racconta del riscatto degli Orchi e della loro difficilissima impresa – disfare le trame di Gandalf e degli Elfi ed eradicare la magia dal mondo degli Uomini – indica quello che è uno dei tratti distintivi ma anche dei peccati originali del fantasy vecchio stampo: l’Eterna Lotta fra il Bene e il Male, che impone la divisione del mondo fantastico in due, cattivi da una parte e buoni dall’altra. Questo, però, richiede la creazione di razze che incarnino il Male: operazione rischiosa, perché presuppone che al mondo esistano popoli che non meritano alcuna considerazione, semplicemente perché stirpe demoniaca, che anche nell’aspetto porta addosso i segni della sua malvagità.

Certo, gli Orchi sono Elfi caduti. Certo, Sauron stesso era una volta un Maiar e il suo Signore Oscuro, quel Melkor poi rinominato Morgoth, era l’Ainur più potente creato da Eru Iluvatar, il supremo creatore di Arda e di tutte le sue divinità. Qui si entra nella cosmogonia tolkeniana; basti al lettore ricordare che in tutti e tre i casi stiamo parlando di esseri che sono diventati null’altro che la degenerazione di “stirpi buone”. Non nati malvagi ma diventati tali per essersi ribellati o per essere stati plagiati (da qualche parte riecheggia il ricordo di Lucifero, precipitato all’Inferno per essersi ribellato a Dio). Resta però il fatto che i nemici dei buoni, nella Terra di Mezzo, sono una razza orrenda e dannata, che va annientata alla radice, proprio perché incarna tutto ciò che di sbagliato c’è al mondo.

Yeskov prende questo presupposto e lo ribalta completamente. Se il libro di Tolkien è un resoconto scritto dai vincitori, è ovvio che questi siano interessati a far passare per mostri quei nemici, che hanno per buona parte spazzato via dalla faccia del loro mondo senza ripensamenti. Yeskov, per sua stessa ammissione, non ha alcuna intenzione di ignorare completamente i canoni del fantasy classico. Così in “The Last Ringbearer” il testimone di stirpe dittatoriale passa agli Elfi. Gnomi e Hobbit scompaiono completamente dalla scena, ma d’altronde quello di Yeskov è un racconto che si concentra sul Sud e sull’Est, sugli Haradrim, sugli abitanti di Humbar e soprattutto su quelli di Mordor.

Yeskov tiene in gran conto la morfologia dei luoghi che descrive, la loro economia, le strutture politiche su cui queste popolazioni si fondano – rimarcando come nel suo racconto altamente epico Tolkien non si sia preoccupato di pensare a quale moneta potessero far ricorso nella Contea o con cosa si sostentassero gli Orchi, che vivevano in una terra desertica e arida, come quella che circondava la Torre Oscura di Barad-Dûr. Da filologo, Tolkien aveva pensato prima di tutto alle lingue che i popoli della sua storia avrebbero parlato, alla mitologia, alle loro tradizioni – solo dopo e solo in parte alle strutture politiche e al contesto geografico in cui si muovevano.

Ma come Yeskov stesso sottolinea, questo non toglie nulla alla validità del mondo di Tolkien, che è un mondo fantastico e come tale ha le sue regole, che la scienza non conosce, e una sua coerenza interna, che resta in piedi proprio fintantoché obbedisce ai canoni dell’epica e dell’high fantasy. Anche nella versione di Yeskov gli Elfi sono creature distanti ma decisamente perfide, consapevoli del loro potere sugli Uomini della Terra di Mezzo. Sono capaci, addirittura, di creare una sottile ma elaborata rete di manipolazione e rieducazione dei giovani appartenenti all’élite che governa Umbar, solo per trasformarli nei futuri servi di uno Stato-fantoccio. Sono loro la razza unidimensionale e malvagia senza possibilità di redenzione (in un passaggio Arwen arriva addirittura a paragonare Aragorn a null’altro che un bambino, che non è intenzionata a sfiorare nemmeno con un dito).

Insomma, da un lato “The Last Ringbearer” soffrirebbe dello stesso peccato originale de “Il Signore degli Anelli”: dividere il mondo in due, scambiando i posti e assegnando a Mordor e agli Orchi il ruolo di vittime, colpevoli di voler industrializzare e rendere razionale un mondo, che non vuole abbandonare l’oscurantismo e le credenze magiche. Ma il punto è proprio che Yeskov non vuole ribaltare i presupposti basilari del fantasy, solo riempire i vuoti del racconto tolkeniano, sostituire la Provvidenza di Arda con l’agnosticismo scientifico, e raccontare la Terra di Mezzo come vista “dall’altra parte della cortina”.

E ci riesce, perché a modo suo “The Last Ringbearer” non ha solo un presupposto originale ma anche uno svolgimento mozzafiato, con ritmi da thriller politico, dove i colpi di scena si susseguono cadenzati con precisione scientifica e ogni avvenimento provoca tutta una serie di reazioni accessorie. C’è spazio persino per Faramir ed Eowyn, i due grandi “rinunciatari” del racconto principale, perché quello di Yeskov è un racconto degli esclusi, dei secondi arrivati, degli emarginati e di tutti quelli che vengono lasciati ai confini de “Il Signore degli Anelli”.

La storia vista dal basso

Ovviamente questo significa che non c’è spazio per gli Hobbit – che restano la più bella invenzione di Tolkien e il vero punto di svolta del suo storytelling rispetto all’epica tradizionale. D’altronde, basta guardare al tipo di racconto fantastico e fantasy contemporaneo per accorgersi di come proprio questa parte del racconto tolkeniano non sia mai stata recepita in pieno da chi è venuto dopo il professore di Oxford. In un mondo invaso da saghe i cui protagonisti sono sempre e comunque predestinati per diritto di nascita a compiere grandi imprese, tutti sembrano aver scordato la lezione di Frodo, Sam, Merry e Pipino, che hanno fatto ben più del loro dovere, perché si sono assunti sulle loro piccole spalle una grande responsabilità. Sempre e comunque perché a Tolkien era cara l’idea che le piccole persone, con i loro piccoli gesti di gentilezza quotidiana, potessero cambiare il mondo più di grandi eroi e cavalieri.

Lezione non recepita nemmeno dai kolossal hollywoodiani e da Peter Jackson, nel suo adattamento molto americano de “Il Signore degli Anelli”. Lezione invece raccolta in pieno da Yeskov, che fa di un medico di campo e di un sergente (Haladdin e Tzerlag, appunto), senza grandi poteri né antenati illustri, i due responsabili principali della salvezza del mondo di Arda dalle grinfie degli Elfi.

Si può dire quello che si vuole di “The Last Ringbearer”. Si può apprezzarlo per quello che è: un umile tentativo di raccontare da un altro punto di vista una storia molto famosa e molto radicata nell’immaginario contemporaneo. Si può detestarlo, per la sua carica dissacrante e spoetizzante, per aver osato macchiare il “testo sacro”, custodito con prostrata reverenza dai suoi seguaci più appassionati. Si può ignorarlo.

Resta una preziosa testimonianza del potere della buona letteratura di affondare le radici nella mente e nel cuore dei suoi lettori fino a scatenare, in alcuni di loro, la voglia di smontare l’opera originale e rimontarla, disponendo i pezzi in modo diverso. I motivi possono essere svariati: rendere quell’opera più vicina al proprio vissuto, mostrarne i difetti anche agli altri fan o, anche, sottolinearne la potenza evocativa – perché non si spendono ore e ore del proprio tempo a scrivere racconti tratti da storie che non ci hanno appassionato.

The Last Ringbearer” ha, soprattutto, il pregio di ricordarci che ogni opera d’arte, anche la più squisita e raffinata, è figlia del suo tempo e di chi l’ha scritta, eredita in pieno il DNA artistico del proprio genitore, con tutti i limiti e le possibilità iscritte nei suoi cromosomi culturali. Espone, nonostante possa contenere mondi a parte infinitamente grandi, nient’altro che il punto di vista del suo demiurgo. E, quando diviene un pezzo della cultura popolare, si espone al punto di vista di tutti i lettori. Anche quelli che non credono che gli Orchi siano i veri cattivi di Arda.

Questione di punti di vista, insomma.

Un commento su “The Last Ringbearer (1999)

  1. Ti è capitato anche in altri libri o film di incontrare dei personaggi così malvagi da non avere alcuna possibilità di redenzione?

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