Con un poco di ipocrisia, la pillola va giù
È difficile giudicare Saving Mr. Banks, perché è uno di quei film che richiedono un certo sforzo per separare le emozioni, sapientemente pre-confezionate da mamma Disney per colpirti a tradimento, e i fatti, che questa operazione di marketing travisa con furba cautela, finché della vera storia dell’adattamento di Mary Poppins resta ben poco. Tutto è affidato all’interpretazione che più fa comodo a un impero mediatico, che assomiglia sempre di più a una dittatura dell’intrattenimento.
Il punto è che Saving Mr. Banks è una storia costruita per far piangere: lo capisci dalla primissima scena, in cui la protagonista – una Pamela L. Travers ancora bambina – dialoga con l’amato padre, su un prato verde inondato dal sole. Da quel punto in poi sai che ogni inquadratura, ogni dialogo, ogni scambio fra i personaggi congiurerà per spremerti dai dotti lacrimali ogni goccia d’acqua, e finirai quasi sicuramente per piangere insieme a Emma Thompson sui fotogrammi finali del film.
Non tanto per la stucchevole sovrapposizione di immagini dell’adattamento cinematografico di Mary Poppins con i flashback dei momenti felici che la Travers ha passato con suo padre, ma perché la Thompson è effettivamente così brava da riuscire quasi a restituire tre dimensioni a un personaggio che nel film è di cartone. Un “cartone animato” nel senso peggiore del termine, piatta, un’insopportabile ma prevedibile parodia dell’autrice in carne e ossa, pace all’anima sua. La vera fortuna di questo film non è né la regia né la sceneggiatura, svolte come compitini per un corso di film making. Non manca nulla alla ricetta per confezionare un lungometraggio, che sa di spot propagandistico alla memoria di quel gran creatore di favole contemporanee (o piuttosto di prodotti vendibili in serie?) che era il vecchio Walt.
La vera fortuna di Saving Mr. Banks sono Emma Thompson, Tom Hanks e Colin Farrel – rispettivamente P.L. Travers, Walt Disney e Travers Goff, padre di Pamela – che si rivelano interpreti straordinari. Avrebbero meritato una sceneggiatura migliore ma resta il fatto che senza il loro apporto questa teoria di cartonati ripieni di cliché non avrebbe retto, né meritato la pioggia di complimenti che ha ricevuto. Il problema con Saving Mr. Banks, tuttavia, non è il facile ricorso a stereotipi narrativi ben collaudati per muovere a facile commozione il pubblico.
È la disonestà con cui racconta una persona realmente esistente, tacendone le complessità e le contraddizioni, e le fa nuovamente un torto, quasi cinquant’anni dopo che con rabbia la Travers si era vista trasformare un romanzo, che per lei molto aveva significato, in una macchina per fare soldi. Una rabbia che si era manifestata nelle lacrime copiose che aveva versato al termine della prima del film di Mary Poppins. Ancora una volta la Disney ha ripulito e addolcito qualcosa di P.L Travers – in questo caso la sua stessa persona – lo ha reso più accettabile al pubblico generalista e ne ha tradito l’essenza.
Nulla, neanche un accenno al figlio adottivo di Pamela L. Travers e al rapporto difficile che la scrittrice aveva con lui. Cassata completamente la bisessualità della madre di Mary Poppins, la sua convivenza durata un decennio con Madge Burnand in un cottage del Sussex, la non breve teoria di amanti uomini che erano stati agganci preziosi, per la sua carriera da poetessa e giornalista in Gran Bretagna. Neanche viene sfiorata la turbolenta adolescenza – passata a pubblicare articoli e persino racconti erotici su giornali locali, giù in Australia, per poi unirsi persino a una compagnia teatrale shakespeariana, per interpretare il ruolo di Lorenzo ne Il Mercante di Venezia. Tutto il film si riduce al suo rapporto con la figura paterna, ingombrante, unico nodo attorno a cui ruota ogni scelta di vita di una donna ormai ultra-sessantenne.
E potrebbe persino essere comprensibile la scelta di questo argomento, come prospettiva per raccontare una sceneggiatura che deve snodarsi in un tempo prestabilito, se non fosse che Saving Mr. Banks fallisce anche nel suo unico scopo: descrivere con onestà e senza fronzoli le due settimane che l’autrice di Mary Poppins trascorse a Burbank, per lavorare all’adattamento dell’omonimo film e approvarlo.
Ma andiamo per ordine.
Salviamo il Signor Banks o la genesi della vera storia di Mary Poppins
Agli inizi del 1961 P.L. Travers vola a Los Angels per revisionare la bozza della sceneggiatura per il film che adatterà il primo libro della sua serie di romanzi sulla tata più famosa del Ventesimo Secolo. Dopo un corteggiamento che andava avanti da quindici anni, a suon di lettere, telegrammi e persino visite, la Travers – che aveva rifiutato una proposta persino da Samuel Goldwyn – aveva firmato un contratto con la Disney, in base al quale, però, l’autrice doveva dare il suo benestare alla sceneggiatura, prima che fosse trasformata in film.
Walt stesso l’aveva invitata a Burbank, dopo aver ricevuto la versione della Travers della sceneggiatura, ma furbescamente l’aveva lasciata in balia dell’artista disneyano, Don DaGradi, e di due giovani compositori, i fratelli Sherman, che avevano già steso parte dei testi che avrebbero dovuto diventare le celeberrime canzoni intonate da Julie Andrews e Dick Van Dike (la scelta di nessuno dei due fu particolarmente apprezzata dalla Travers, fra le altre cose).
La madre di Mary Poppins si aspettava che la direzione del progetto fosse affidata tutta nelle sue mani, visti i corteggiamenti insistenti di Disney – che lei stessa aveva definito come un ipnotizzatore che faceva dondolare il suo orologio davanti agli occhi di un bambino. Invece trovò di fronte a sé tre persone che cercavano di venderle la versione Disney della sua storia e che non avevano alcun potere di integrare le sue critiche nel copione – non mentre il Capo era sparito a Palm Springs. Di quelle due settimane di lavoro, fitte di rimproveri puntigliosissimi da parte di una Travers molto più matura e proterva dei due trentenni compositori ancora alle prime armi, restano trentasei ore di registrazioni su nastro, volute dall’autrice stessa. Registrazioni che si possono ascoltare, parzialmente, nei titoli di coda del film e che sono state usate per sottolineare la veracità della storia mostrata sullo schermo.
Ed è qui che Saving Mr. Banks, e con lui la Disney, ci lancia la sua palla più curva: nell’abilità subdola di mostrare eventi veri sotto una lente diversa e, in ogni caso, tagliando fuori informazioni che potrebbero spingere il pubblico a non bersi la morale finale del film. A cui arriveremo nel secondo paragrafo. Restando sulle registrazioni, il film trascura abilmente le proteste della Travers sugli anacronismi e soprattutto sulla decisione di spostare l’ambientazione storica di Mary Poppins dagli anni della Depressione agli anni Dieci del Novecento, piena epoca edoardiana, un’Inghilterra ancora ricca e ribollente dei fremiti della Belle Epoque.
La famiglia Banks – composta da quattro e non da due figli – nel romanzo è tormentata, come ogni famiglia, dal terrore della depressione economica, vive nella casa più piccola e peggio tenuta della sua strada e il signor Banks è niente più che un oscuro impiegato di banca. Una famiglia della media borghesia, certo, ma con una madre civettuola e fragile, che cerca come può di gestire la prole con l’aiuto di una tata, e un marito che non sarà un padre modello ma non è nemmeno l’uomo freddo e distante mostrato nel Mary Poppins disneyano.
Come notato in questo lungo articolo del 2005 da Caitlin Flanagan, è molto probabile che Mary Poppins sia stato, per la Travers, un esercizio letterario per esorcizzare e riscrivere un’infanzia difficile, piagata dalla morte di un padre alcolizzato e dall’instabilità di una madre fragile e sola, che addirittura aveva tentato il suicidio. Un’infanzia salvata dall’intervento di una prozia dura e inflessibile ma inaspettatamente gentile, sotto la corteccia di modi bruschi con cui aveva riportato ordine in una famiglia già malmessa di suo. La famosa prozia – che non si capisce perché diventi una giovane sorella della madre, nel film – che avrebbe ispirato il personaggio della tata portata dal vento dell’Est.
Saving Mr. Banks, però, fa qualcosa di più. Decide di prendere l’opera e le testimonianze di una donna ormai morta da tempo – e che, a differenza di Walt Disney, non ha né famigliari né una fondazione alle spalle che possano difenderla da “riletture fittizie” – e la psicologizza con molto poco pudore, affidando il ruolo di guaritore di cuori spezzati al buon vecchio zio Walt. Ed è qui che il film si rivela per la sporca operazione pubblicitaria che in fondo è.
Zio Walt, salvatore di bambini e di adulti di tutto il mondo
Tralasciamo le considerazioni sul fatto che un gruppo di uomini, nei primi anni Sessanta, prende una storia scritta da una donna dalla vita turbolenta e controcorrente, la ripulisce di ogni asperità e bizzarria e la trasforma in una favola americana sulla vera famiglia – che non ha bisogno di una tata, ma di una madre che stia a casa e di un padre che, dopo il lavoro, giochi coi figli, come mostrato, quasi en passant, dal finale tutt’altro che edificante di Mary Poppins. Ci vorrebbe un articolo a parte e, comunque, Caitlin Flanagan ha già raccontato questo aspetto.
Tralasciamo anche il dettaglio, non irrilevante, che Disney non è corso a riconquistare una Travers riottosa e in crisi con se stessa, dopo le due settimane a Burbank. Il contratto era già stato firmato e, nonostante i due anni di lettere, colme di appunti e lamentele dell’autrice, DaGradi e i fratelli Sherman portarono sullo schermo la visione di Disney di Mary Poppins, quella che inconsapevolmente molti di noi hanno amato e con cui sono cresciuti per decenni. Un’opera che avrebbe portato grande fortuna economica alla Travers ma che pure l’avrebbe così ferita da spingerla a vietare esplicitamente nel suo testamento qualsiasi adattamento americano delle sue storie su Mary Poppins.
Sono le lacrime di rabbia di cui accennavo più su, quelle che la Travers aveva versato durante una prima a cui non era stata invitata e in cui aveva dovuto pretendere di essere inclusa, tampinando un dirigente della Disney. Una prima a cui Disney, dopo aver accolto freddamente le critiche dell’autrice, l’avrebbe abbandonata, sola nel mezzo di una festa che era stata preparata per celebrare il più grande raccontastorie del Ventesimo Secolo, non l’ideatrice di una storia che avrebbe segnato le fortune anche dei live action di casa Disney.
Tralasciamo l’aderenza alla verità storica, su cui Saving Mr. Banks passa come un carro armato, per concentrarci su altro. Sulla produzione del film e sulla figura di Disney, che sono la chiave per capire perché tanto ridicolizzata e sminuita e appiattita è stata la figura della Travers.
Saving Mr. Banks era nato come progetto indipendente. Nel 2002 Ian Collie, dopo aver prodotto il documentario The Shadow of “Mary Poppins”, si era convinto che quel materiale avesse il potenziale per un biopic e aveva proposto alla Essential Media and Entertainment di sviluppare un lungometraggio con Sue Smith come sceneggiatrice. La BBC Films si era poi detta interessata a finanziare il progetto, aggiungendo Kelly Marcel come co-sceneggiatrice. L’intoppo si era presentato quando era stata avanzata la richiesta alla Disney di utilizzare alcuni spezzoni del film di Mary Poppins per il biopic. A quel punto il colosso dell’intrattenimento – siamo già nel 2011, intanto nei cinema di tutto il mondo sta iniziando l’invasione dei film della Marvel – decide di prendere le redini del progetto e di produrlo personalmente, assumendo come regista John Lee Hancock.
Per citare il presidente Alan Horn, Saving Mr. Banks era considerato un “brand deposit”, un termine usato da Steve Jobs per descrivere quel tipo di contenuti che generano nel consumatore un’associazione positiva con il brand. Insomma, i dirigenti dei Walt Disney Studios erano ben consapevoli che un accorto retelling della storia di P.L. Travers sarebbe andato a tutto vantaggio della reputazione di un colosso dell’animazione, che stava cominciando a macinare un considerevole numero di soldi attraverso una produzione in serie di live action e un’acquisizione mirata di diversi franchise famosi (più tardi il Topo avrebbe messo le mani anche su Star Wars e tutti sappiamo com’è andata a finire).
John Lee Hancock si disse sorpreso dallo scoprire che la Disney gli aveva permesso di lasciare intatte tutte le parti in cui venivano mostrati i difetti e i lati meno simpatici di zio Walt – era convinto che sarebbe stato sottoposto a una feroce censura. Chi non capisce la sua sorpresa sono io. Dopotutto Saving Mr. Banks svolge egregiamente il suo lavoro di pubblicizzare la versione di Walt Disney che più piace al suo colosso raccontare al mondo. I dirigenti dello studio di Burbank sono ben consci che il pubblico generalista sa che zio Walt non era esattamente né un santo né un uomo particolarmente buono nei confronti dei suoi dipendenti.
Eppure.
Eppure il modo in cui alcuni dei difetti di Walt Disney sono presentati nel film è sornione e gioca a favore della sua causa: ce lo rende, in fondo, simpatico. Tutti abbiamo dei difetti e sapere che anche i grandi della storia passata recente avessero le loro magagne ce li rende più vicini, più comprensibili, ci spinge persino a immedesimarci in qualcuno dei loro vizi e riconoscerli come nostri. Non avrebbe avuto senso una censura o una “sterilizzazione” eccessiva del personaggio Walt Disney, sarebbe suonata falsa e fuori posto. E poi, insomma, è nientemeno che Tom Hanks a interpretare questa difficile parte, non certo un attore che dal pubblico viene associato a ruoli da cattivo o da schifosa canaglia.
Ecco, appunto. Walt Disney ha dei difetti, ci viene mostrato come una vecchia volpe, a suo modo anche prepotente, ma mai “disgustoso”. C’è sempre un certo fascino nel modo in cui dolcemente finisce per costringere P.L. Travers ad accettare la sua sceneggiatura, una condiscendenza paternalistica tanto più irritante, se si conoscono i reali retroscena e la freddezza con cui i due autori si trattavano nella realtà. Pamela Travers era una donna che aveva fatto la giornalista fianco a fianco con T.S. Eliot, aveva parlato di poesia con William Yeats Butler, il suo romanzo su Mary Poppins era stato apprezzato da personalità come Sylvia Plath, la Principessa Margaret e Caroline Kennedy.
Ma tutto questo nel film non c’è. C’è solo la parodia di una vecchia zitella inacidita, a sessantacinque anni ancora ossessionata dal ricordo di un padre alcolizzato, che sembra aver informato tutte le successive decisioni della sua vita… di cui non sappiamo nulla. E di cui nulla dobbiamo sapere. La vita di Pamela dopo i dieci anni e prima dei sessantacinque è un vuoto, che Saving Mr. Banks volutamente non riempie. Quello che fa, invece, è affidare a zio Walt il ruolo di salvatore e di furbo imprenditore, certo, ma con un cuore.
Perché, sembra dirci Saving Mr. Banks, magari zio Walt un po’ canaglia lo è, ma non sta sfigurando fino a rendere irriconoscibile una storia che lui stesso riconosce come essere importantissima per la sua autrice, solo per amore di grandi incassi. Assolutamente. Walt ha capito Pamela meglio di quanto Pamela non abbia capito se stessa, ha capito che Mary Poppins è solo un tentativo di riabilitare la figura del padre, ai suoi occhi e agli occhi del mondo, ed è quello che le offrirà. Come in ogni buon film hollywoodiano che si rispetti, il terzo atto di Saving Mr. Banks è tutto qui: Pamela L. Travers deve compiere un percorso per smettere di essere una fredda zitella acida e “lasciarsi andare”, rimettersi in contatto con i suoi sentimenti e chi, meglio di Walt, povero Walt maltrattato da un padre freddo e prepotente, può capirla e aiutarla?
È per questo che non si capisce lo stupore di John Lee Hancock. Questo film ci presenta Walt Disney come una sorta di anziano maestro da storia fantasy, che già conosce la strada da percorrere e la mostra a un giovane e smarrito compagno di viaggio (Gandalf, sei tu? Ovviamente no, che Tolkien mi perdoni). E molto paternalisticamente è Walt a dirci che il suo Mary Poppins è solo la storia di un padre che dev’essere salvato. Si glissa su tutto il resto, soprattutto sull’accorta operazione di marketing per raccontare a tanti bambini intorno al mondo che una famiglia sana è una famiglia all’americana, come piaceva agli statunitensi dei primi anni Sessanta: madre a casa, padre che gioca coi bambini nel weekend, nessuna tata, nessuna genitrice al lavoro (ah, il tocco d’artista nel rendere la figura delle suffragette ridicola con una bonarietà che nasconde perfettamente l’intento denigratorio).
La storia si ripete con P.L. Travers, dileggiata due volte: prima in vita, con un film che la fece sentire tradita e a cui pure dovette tanto, in termini economici. Adesso, dopo la morte, senza neanche potersi difendere, disneyanizzata pure lei, trasformata in una scialba zitella arrabbiata, mentre sono stati messi da parte tutti gli aspetti contraddittori, controversi e controcorrente della sua vita. Per non turbare le famiglie che entreranno al cinema, certo, e per non macchiare lo stile Disney, che nell’ultimo decennio si è fatto ancora più conservatore, si è irrigidito su trame e su stili comici fuori tempo massimo, dettando un canone cinematografico per tutto e per tutti.
Saving Mr. Banks è così molto meno biopic e molto più pietra di fondamento per un processo di disneyanizzazione del mondo cinematografico, che ha ormai raggiunto la saturazione ma che all’epoca era ancora molto fresco. Nessuno metteva in discussione la bontà dei film Marvel, la futura acquisizione di Star Wars sarebbe stata salutata come un arricchimento – e non una svalutazione – del franchise e quel modo di raccontare storie sarebbe stato considerato per anni e anni l’unico valido, moderno e rivoluzionario, persino.
Ma stiamo divagando.
E dunque, torniamo all’inizio: Saving Mr. Banks è un’operazione di marketing, né più né meno. Sentimentalissima, ipocrita e sleale. E spiace davvero. Con quel cast e con tutto quel materiale a disposizione, poteva essere un’ottima occasione per raccontare al pubblico una storia nuova, su una donna tutt’altro che facile da approcciare, su un film amatissimo e su tutti i lati oscuri della sua produzione. Invece no. Invece l’ennesima favola, ripulita, perbenista, demodé, sull’uomo saggio e astuto che doma la bisbetica irragionevole.
Da guardare, certo, ma cum grano salis. Con tantissimi granelli di sale.