Inside Out_Locandina

Ieri, finalmente, dopo giorni di rimandi e complicanze causa influenza galoppante e tempo orribile, sono andata al cinema a vedere “Inside Out”.

Tutti ne parlavano, tutti lo osannavano, si è tanto parlato del fatto che non fosse un film per bambini, che dopo una storia del genere era più semplice capire come funzionavano le emozioni delle persone anche per chi fosse abituato a farsi i cazzi propri invece di guardare in faccia le persone che ha accanto e io ero lì, bastian contraria come sempre: “Ma non è che sto film è ‘na cagata pazzesca?”.

Sospiriamo tutti di sollievo: no, è bellissimo.

Io il metro di “bellezza” di un film lo misuro da quanta voglia ho di rivederlo e/o da quanto ho pianto.

E ho pianto più volte. Come una fontana. Quindi è stupendo, bona.

Ma basta parlare di me, parliamo di “Inside Out”, che non siamo venuti qui per assistere a una seduta di training autogeno della Raxi.

[ATTENZIONE, SPOILER A GO-GO]

Vorrei scindere la mia recensione in due parti ben distinte: valutazione tecnica e commento dei contenuti. Il perché è presto detto.

Un film che parla di emozioni, della fatica di crescere, dell’importanza di abbandonarsi a sentimenti negativi e non solo di essere sempre felici può influenzare il giudizio complessivo sulla gestione della trama, sull’animazione, sulla musica, insomma su tutti quei lati tecnici di cui bisogna tener conto, se si vuole giudicare la qualità obiettiva di un film e non solo l’impatto che ha avuto su di noi a livello emozionale.

Ecco, io l’ho trovato un film molto ben fatto. Al di là delle emozioni che ha suscitato in me, mi è piaciuto in tutti gli aspetti di cui sopra. Nell’animazione, nella resa dei personaggi, nelle musiche che accompagnavano le avventure di Tristezza e Gioia nei lati più oscuri della mente di Riley. Nella trama, soprattutto.

Al di là del fatto che era una trama compatta, che non lasciava dietro di sé buchi e incongruenze, ho molto apprezzato il racconto di una storia che non aveva un vero e proprio antagonista, o meglio. L’antagonista e il protagonista coincidevano, nella misura in cui tutta la storia era la metafora di un viaggio di crescita in cui le emozioni di Riley e Riley stessa dovevano imparare a capirsi meglio e a reagire di fronte al dolore di una perdita (beh, sì, anche un trasloco è una perdita e la sottoscritta, dopo aver abitato in tre città diverse, può testimoniarlo) totalmente nuova, qualcosa che a undici anni ancora non aveva affrontato.

Così Gioia, che fra le emozioni è la protagonista di questa storia, diventa quella parte dell’alter-ego di Riley che deve imparare ad accettare le emozioni negative – personificate da Tristezza – che apparentemente sembrano scomode e capaci di rovinare i bei ricordi ma che invece danno senso anche alla felicità che arriva dopo. Al di là del fatto che la presenza degli omini nella mente di Riley e dei ricordi incastonati in un’enorme archivio mi abbia ricordate le puntate di “Esplorando il corpo umano” che guardavo da piccola, la gestione della trama mi ha molto convinta.

Era un film sicuramente immaginifico, che sfruttava le potenzialità di un’ambientazione come quella della mente umana, dove tutto è permesso, per giocare con le situazioni, con la costruzione dei luoghi in cui Gioia e Tristezza si aggiravano, tentando di ritornare alla plancia di comando e persino con le forme e con i colori (il passaggio nella zona del “pensiero astratto” è stato divertentissimo). Le musiche che accompagnano il loro viaggio sono quasi da videogioco e rendono benissimo in momenti in cui, come quando le due emozioni si trovano a inoltrarsi nel subconscio di Riley, sottolineano la presenza di pensieri e ricordi inquietanti capaci di spaventarla fino a costringerla a un brusco risveglio.

La crescita stessa dei personaggi, a cominciare dalla stessa Riley, da Gioia e da Tristezza, è ben orchestrata, è emozionale al massimo perché le costringe a mettersi di fronte all’evidenza dei fatti ma a non lasciarsene sopraffare, bensì a lottare per cavarsi fuori da una situazione nuova e totalmente straniante. Qui nessuno è cattivo, però. Se è vero che il film insegna che la Tristezza è un’emozione importante quanto le altre, non per questo colpevolizza Gioia. Se è vero che, tentando di aiutare Riley, Gioia sbaglia e diventa antagonista di una storia che dovrebbe vederla dalla parte del Bene, questo non la rende cattiva e sarà proprio la presenza di Tristezza ad aiutarla a capire i propri sbagli.

Ed è meraviglioso, tutto ciò, perché molto spesso il cinema d’animazione (e non solo) di derivazione americana ci ha abituato a un mondo rigidamente separato fra Buoni e Cattivi, dove pure se i ruoli si ribaltano, quelli che sembrano Cattivi finiscono per essere i Buoni e viceversa, mantenendo sempre questa divisione manichea fra Bene e Male. “Inside Out” non fa così. “Inside Out” dimostra che nella vita ci sono sfumature, situazioni di confine dove Gioia e Tristezza si mischiano e collaborano, perché la loro “padrona” Riley stia meglio.

Abituata com’ero a cercare un “nemico”, mi sono persino chiesta, a un certo punto, se non fosse Bing Bong il vero “cattivo” della storia, che aveva provocato lo scombussolamento dentro Riley per non essere dimenticato da lei. Fortunatamente il film non mi ha offerto una soluzione così limitata e semplicistica, anzi, l’amico immaginario di Riley si dimostra uno dei personaggi più divertenti e toccanti, così affezionato alla sua creatrice da sacrificarsi e scomparire nella Discarica dei Ricordi, come residuo di un’infanzia che sta finendo, pur di aiutare Gioia a tornare a casa.

E qui si viene al messaggio, che alla fine già vi ho anticipato. Perché il succo del film è che provare emozioni “negative” come la Tristezza è importante e fisiologico, anche per far comprendere agli altri che si sta male e si ha bisogno di un aiuto. È un messaggio pesante, in una società che cerca continuamente di convincerci ad essere efficienti e funzionali al 100% sempre e comunque, a non mostrare difetti o falle, a sorridere ed essere tirati a lucido anche quando vorremmo buttarci in un angolo e lasciarci andare al dolore che proviamo dentro.

Si è detto che questo film non è per bambini ma non sono d’accordo. È un film con diversi livelli di lettura e se è vero che un bambino potrà empatizzare fino a un certo punto col dolore di Riley e con il suo impeto di ribellione a una situazione che non le piace, è pur sempre vero che può già cominciare, attraverso un film che personifica le emozioni, acomprendere meglio se stesso. Soprattutto, penso che la ricchezza di certi film d’animazione (che poi non sono solo per bambini e non lo sono mai stati), soprattutto di quelli che una volta la Disney era ancora capace di fare, stia proprio nel possedere più piani di lettura, che si arrivano ad afferrare tutti solo crescendo e rivedendoli ancora e ancora. È questo che fa di certe storie delle pietre miliari, che restano nel cuore di chi le guarda e che ne segnano in qualche maniera il pensiero e l’approccio alla vita.

Non voglio esagerare, ma ho trovato “Inside Out” un film importante, perché certi temi sono universali, e il dolore della crescita, l’approccio alle prime delusioni, riconoscere di non potercela fare sempre, non subito e non al primo colpo, sono messaggi importantissimi, che non dovrebbero trasmettere soltanto le storie che vediamo al cinema ma gli adulti che abbiamo attorno. Se genitori ed educatori capissero l’importanza di insegnare ai bambini cos’è il fallimento, perché non è dannoso, perché bisogna sbagliare e anche provare dolore se si vuole crescere e scoprire cose nuove, sicuramente avremmo in giro meno adolescenti e giovani adulti spaventati e cinici, semplicemente perché dirsi che falliremo ed è inutile provarci fa meno male che affrontare l’umiliazione di essere trattati come perdenti e scoprire che i nostri sogni sono più difficili da raggiungere di quanto non pensassimo.

“Inside Out” è stato sicuramente una bellissima prova della Pixar, all’altezza di quel capolavoro che è “Toy Story”, di “Monsters & Co.” e di “Wall-E”.

Consigliatissimo.

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