MAGGIO 2025

E anche questo mese ci ritroviamo qui, con la raccolta degli interventi più significativi sul mio canale Telegram, postati nel corso del mese di maggio.

Mese che è stato denso di riflessioni – dall’uso della cosiddetta intelligenza artificiale per generare immagini “in stile Ghibli” ai problemi che affliggono il racconto cinematografico negli ultimi anni.

Chiudo l’introduzione della rassegna con un annuncio: la rubrica va in pausa, probabilmente fino a metà autunno, sicuramente fin dopo l’estate, per permettermi di concentrarmi sul lavoro di ricerca e lettura per ampliare la mia monografia su Nausicaä della Valle del vento.

Buona estate e a presto!

[👁️] CONSIGLI DI VISIONE: SNOOZE QUEST (2025)

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Un fotogramma da “Snooze Quest” di vewn, disponibile sul suo canale YouTube gratuitamente

“Devi prenderti cura della tua salute mentale.” “Hai bisogno di otto ore di sonno per essere produttivo.” “Hai dato il tuo contributo alla società oggi?” sono i mantra del mondo contemporaneo. Frasi che vengono ripetute ossessivamente: sul web, nei programmi televisivi e in quelli radiofonici, sulle riviste dedicate al “benessere”, anche da colleghi di lavoro e familiari, che non si spingono mai oltre queste raccomandazioni superficiali – pensando che basti una semplice passeggiata nei boschi per farsi passare la depressione.

Sono anche tre frasi ripetute in maniera martellante nel nuovo corto di vewn, prodotto per il programma “Smalls” di Adult Swim. Chi ha letto l’articolo di Daelar Animation dedicato al lo-fi statunitense conosce già il nome di questa geniale animatrice, che sforna corti animati intenti a dissezionare in modo crudo, dissacrante ed essenziale le storture della contemporaneità e le paranoie degli esseri umani in una società sempre più scandita dall’ossessione di essere produttiv3 e performanti a tutti i costi.

Snooze Quest” ci offre nove minuti di quello che sembra un lucido delirio, che solo chi ha sperimentato un’insonnia cronica conosce così bene. Eppure nel delirio di PJ, la protagonista, intenta a portare a termine una missione – vendicare una sconosciuta ragazzina abbattuta da un cecchino a piede libero – c’è molto di reale e ben poco di immaginario.

Vewn ormai ha virato verso un approccio molto particolare alla rappresentazione della realtà quotidiana: il filtro degli smartphone. Non è questo il primo corto in cui lo schermo viene costantemente invaso da alert del cellulare, pop-up pubblicitari, consigli non richiesti dell’IA, sovrapposizioni psichedeliche di video e immagini a velocità folle. In “Snooze Quest” più che mai vewn ci mostra come stiamo vivendo la nostra vita in questo momento: con un occhio sempre puntato sullo schermo dello smartphone, costantemente impegnati a inquadrare quello che facciamo, al punto da non viverlo neanche più noi in prima persona.

Si dedica soprattutto in maniera sfacciata a mettere a nudo alcuni dei mali di una società statunitense che non è poi così distante dal contesto culturale in cui viviamo anche noi qui in Italia: una presenza della violenza ormai pervasiva in ogni ambito della vita quotidiana; un accesso facilitato alle armi, ipocritamente vendute previo avviso di non usarle per “farsi del male”; una forza di sicurezza pubblica inaffidabile e oppressiva, che non difende l3 cittadin3 ma pretende che chiudano un occhio su ciò che accade attorno a loro; il ricorso costante ai farmaci e alla telepsicologia, spacciati come panacea di ogni male. L’importante è dormire, almeno otto ore per notte, così da poter essere membri produttivi della società. Poco importa se quella cronica mancanza di sonno sia lo spettro di un malessere causato da quella stessa società, sempre più a pezzi e sempre più insensata.

Snooze Quest” è uno di quei corti che durano poco ma necessitano più di una visione, di essere riguardati e stoppati, per analizzare bene ognuno dei frame ingombri di schermate, pop-up e descrizioni. Più che un lucido delirio si tratta di un tentativo riuscito di raccontare la realtà con delirante lucidità. Consigliatissimo – così come consigliati sono i commenti dell3 utenti, che ben mettono a nudo che vewn non è sola, a sentirsi a disagio nella contemporaneità. Siamo in tant3 e forse anche in tropp3 a stare male e non dormire bene la notte.

[🧵] CUM GRANO SALIS: CHAT GPT VS STUDIO GHIBLI

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Un fotogramma dal documentario “Never-Ending Man: Hayao Miyazaki” (2016, dir. Kaku Arakawa)

«Sento che la fine del mondo è vicina. Gli esseri umani stanno perdendo fiducia in loro stessi».

Così parlava Hayao Miyazaki nei minuti finali del documentario di Kaku ArakawaNever-Ending Man: Hayao Miyazaki” (2016). Probabilmente avete sentito citare questo passaggio parecchie volte nei mesi scorsi in risposta all’esplosione (molto effimera ma non per questo meno preoccupante) del fenomeno delle immagini elaborate da ChatGPT “in stile Studio Ghibli”.

Fiumi di parole sono stati spesi sul momento e poi anche questa discussione è stata più o meno accantonata in ambito generalista con una rapidità purtroppo sempre più comune per quanto riguarda le notizie – e non solo quelle dei fenomeni del web. Io però voglio ritornarci, su questa questione, sulle parole di Miyazaki ma anche sul problema dell’intelligenza artificiale.

Non ho una buona opinione della cosiddetta “intelligenza artificiale”, né della copertura giornalistica che la stampa generalista ha fatto di questo nuovo trend abbracciato dalle Big Tech. Finora ho visto molti discorsi da fantascienza spicciola, con amministrator3 delegat3 e giornalist3 presuntamente espert3 di tecnologia che paventano una rivolta delle macchine contro l’uomo oppure che millantano l’avvento dell’era d’oro della Super-intelligenza, che prenderà il posto dell’essere umano per creare una società migliore. Tutti discorsi quasi sempre non basati su nessun tipo di dato certo ma solo su supposizioni, speranze e convinzioni personali.

Come ben spiegato da Cory Doctorow in questo post l’IA è l’escamotage che grossissime realtà come Amazon e consimili si sono inventate per convincere gli investitori a continuare a puntare su di loro. La crescita a tutti i costi è il mantra del capitalismo all’ultimo stadio ma quando ti sei mangiato tutti i tuoi concorrenti e hai occupato ogni nicchia possibile del tuo mercato – com’è il caso di Amazon, appunto, di Meta o di Apple – non puoi fare altro che tirare fuori dalla manica la prospettiva di nuove terre vergini da conquistare.

La stampella dell’IA ormai ci viene propinata in qualsiasi prodotto virtuale a cui abbiamo accesso: dalle chat di Meta AI, ficcate a forza nella schermata delle conversazioni di WhatsApp, a WordPress che ti propone di ricorrere alla sua IA per aiutarti a scrivere i testi dei tuoi interventi sui siti e i blog da te controllati (non ne ho mai fatto ricorso né mai ne farò). Sembra che tutte le aziende del mondo siano impegnate a convincerci che con i nostri cervelli non ce la possiamo fare; Che siamo troppo sciocch3, incapaci di usare i nostri cervelli anche per compiti basilari che una volta svolgevamo da sol3: scrivere una email, riassumere un testo, fare la lista della spesa. Improvvisamente sono compiti pesanti, gravosi, ripetitivi, che ci tolgono il tempo di fare altro.

L’IA dovrebbe – e sottolineo il condizionale – fare tutte le cose che fanno gli esseri umani ma meglio, più velocemente, in modo più efficiente. Non certo più economico. È risaputo che il dispendio di energie e di risorse (soprattutto di acqua, per evitare il surriscaldamento dei server) anche solo per intrattenere una semplice conversazione con ChatGPT è tale che realtà come OpenAI premono da mesi, perché il governo statunitense si adegui alla loro fame di energia, utilizzando i soldi dei contribuenti per potenziare la rete energetica al loro servizio, non al servizio della comunità.

Come ha spiegato Edward Zitron già nel luglio 2024, persino Goldman Sachs ha sottolineato che si tratta di una tecnologia dispendiosa, che non sa dove vuole andare e quali obiettivi vuole raggiungere. Una tecnologia, soprattutto, portata avanti da manager che non hanno alcun rispetto né per le persone che svolgono quei lavori che tanto testardamente vogliono sopprimere né per l3 clienti che da quei lavori vengono servit3.

Tutti i discorsi finora portati avanti dall’intelligenza artificiale ruotano attorno a un principio che io trovo a dir poco preoccupante: la costante svalutazione del lavoro umano. C’è un disprezzo infinito per le persone che lavorano in questo martellante tentativo di spiegarci che siamo tutt3 ingranaggi sostituibili e che i compiti che svolgiamo sono inutili e potrebbero essere svolti meglio e più in fretta da una macchina addestrata sulla base di mere incidenze statistiche. Un disprezzo che nasce da lontano e che ha pervaso ogni ambito: dai cosiddetti “lavori non specializzati” – che poi sono proprio quelli che fanno funzionare la società e vengono pagati peggio – ai lavori “di concetto”, soprattutto i lavori creativi.

Il trend delle immagini generate “in stile Studio Ghibli” ha ancora una volta dimostrato quanto poco rispetto le persone nutrano verso il lavoro artistico. Per molt3 di loro l’arte e l’intrattenimento sono al pari di zuppe in scatola da divorare velocemente, in serie, ogni volta che si hanno cinque minuti di vuoto da riempire in qualche modo. In totale sprezzo e ignoranza del lavoro – e si torna sempre su questo termine – di tutt3 coloro che nella filiera dell’animazione (in questo caso particolare) sono impiegat3. Chi ha fatto ricorso a ChatGPT per un avatar personalizzato non aveva davvero bisogno di quell’avatar, come dimostra il fatto che dopo poche settimane già non se ne vede più nessuno in giro, né era pienamente consapevole che quello che considerava un gioco significava nei fatti derubare l’operato altrui e sprecare infinite risorse (in termini di energia elettrica e di acqua consumata) solo per inseguire una moda così effimera da durare pochissimi giorni.

Quello che ChatGPT ha vomitato fuori come “stile Studio Ghibli” era la pallida imitazione del lavoro di decenni di decine di animator3, illustrator3, colorist3, layout e background artist, regist3 e via discorrendo. Un lavoro collettivo, fatto di tentativi, pazienza, preparazione, studio, impegno, confronti, passione, umanità, tutte cose che un programma progettato per sputare fuori rielaborazioni zoppicanti dei dati che gli sono stati forniti non potrà mai fare. Semplicemente perché è un programma che, nella migliore delle ipotesi, sintetizza l’arte rubata a tant3 artist3 che non sono stat3 nemmeno interpellat3, prima di essere derubat3.

Per riprendere le parole del maestro Miyazaki: quanto poco si fida l’essere umano di se stesso, se deve affidarsi a una macchina per creare qualcosa che dovrebbe provenire dalla sua esperienza, dalla sua vita vissuta, dalle sue emozioni, dall’interferenza del suo corpo di carne con le sue idee impalpabili, dalla sua personalissima, limitatissima e a suo modo originalissima visione del mondo? E quanto poco rispetto deve avere un essere umano del lavoro dell3 altr3 e di se stesso, se da un lato crede di poter sostituire quel lavoro con una macchina che asseconderà tutti i suoi capricci; e dall’altro lato pensa di meritarsi soltanto il rigurgito statistico di una macchina senz’anima, che si limiterà ad appiccicare insieme una serie di stringhe, in base alla risposta più probabile al prompt in dieci parole che gli ha fornito, sbattendo i pugni sul tavolo e pretendendo intrattenimento a tutti i costi?

Condivido molto la visione di Cory Doctorow, quando dice che il risultato generato da una IA non può essere arte, perché a un LLM come ChatGPT o Midjourney manca l’intento comunicativo, insito in ogni opera artistica fatta da un essere umano di carne e sangue. Quelle immagini “in stile Studio Ghibli” sono solo linee colorate, che non restituiscono assolutamente nulla, se non una serie di imitazioni di qualcosa che vagamente assomiglia a un fotogramma di un film a caso dello Studio Ghibli. In quei giorni mi è parso di assistere sul web solo a una corsa disperata per accaparrarsi l’ultimo accessorio alla moda – avete presente le file di persone fuori dai negozi per comprarsi l’ultimo modello di iPhone? Ma l’arte non è un prodotto in serie, non può essere un prodotto in serie e lo stesso capitalismo ha dimostrato che a furia di mercificare e deprezzare, ciò che abbiamo fra le mani sono oggetti che valgono poco, durano poco e nascono dallo sfruttamento di lavorator3 che con il loro stipendio non possono permettersi nemmeno quegli oggetti scalcagnati che producono.

Anche dietro la storia di ChatGPT si svela lo sfruttamento di decine di lavorator3 sottopagat3 e vi invito a leggere questo articolo di Time per saperne di più, prima di dar retta a chi vi dice che ormai ci siamo, che l’IA ce la fa da sola, sa imitare perfettamente un essere umano che scrive un testo!

Al termine di questo mio sproloquiare voglio solo sottolineare che l’incidente “Chat GPT imita lo Studio Ghibli” ha reso chiaro che la china che stiamo prendendo è pericolosissima. No, non perché le macchine ci sostituiranno. Sono positivamente convinta che questo non accadrà. Le macchine sono nostre creazioni e in quanto tali imperfette e in quanto tali incapaci di andare oltre di noi. No. La china è pericolosissima perché, se l’umanità abdica anche alla sua capacità di creare, vuol dire che ha perso ogni speranza nel proprio futuro. Non va bene. L3 entusiast3 dell’IA ci stanno vendendo un altro futuro, in cui l’essere umano non fa più nulla, tranne scrivere brevi ordini a un programma che poi, lungi dal fare tutto da solo, pesca arbitrariamente da un patrimonio di dati composto dal lavoro rubato ad altri esseri umani – senza citarli, senza dare loro alcun credito, senza chiedere permesso – per poi ricombinarli e sputare fuori qualcosa su cui non ha riflettuto, né preso posizione. Qualcosa che nemmeno capisce.

Questo non è lavoro e non è uno strumento che aiuta a lavorare. Questa è una pretesa di automazione che mira a togliere all’essere umano ogni controllo sul processo lavorativo, riducendolo a un mero certificatore del lavoro fatto dalla macchina. Così, se mai difetti ci saranno, a essere incolpato sarà l’essere umano che non ha “ben controllato” il lavoro dell’IA.

Io non voglio vivere in un mondo in cui i libri che leggo e i film che guardo sono sputati fuori da una programma automatizzato. Non mi piace l’idea di “cibarmi” intellettualmente di un “prodotto” che nessun essere umano si è preso il disturbo di elaborare, mettendoci sudore, impegno e fatica. Mi merito molto meglio del rigurgito allucinato di un programma ruba-dati. E ve lo meritate anche voi. Metteteci coscienza, nell’approcciarvi a questo fenomeno. Ci sono persone che sono morte, al tavolo da disegno, per offrirvi le loro opere. Per offrirle a voi, non a un programma che ci lucrasse sopra, strappandogliele di mano senza chiedere nemmeno il permesso.

[🧵] CUM GRANO SALIS: SPIEGA L’ARTE E METTILA DA PARTE

Un fotogramma da “Miss Weaboo-Boo”, terzo episodio degli “Helluva Shorts” della serie “Helluva Boss”

In un articolo sul The New Yorker risalente all’8 marzo scorso intitolato “The Age of Literalism“, Namwali Serpell, professoressa di Inglese a Harvard, punta il dito contro un vizio di forma che innerva tutti i film visti al cinema negli ultimi anni: il Letteralismo.

Il Letteralismo è quel fenomeno per cui ogni prodotto artistico su cui mettiamo gli occhi – sia esso un film, una serie TV, un libro, un fumetto – si sente obbligato a spiegarci cosa sta succedendo sullo schermo, quali sono i significati nascosti della vicenda, come si sentono i personaggi, quali sono le citazioni inserite all’interno della storia, qual è la morale della storia stessa. Tutto quello, insomma, che dovrebbe fare la narrazione.

Per meglio dire, la narrazione dovrebbe presentarci le vicende e poi noi, il pubblico, dovremmo elaborarle e trarne le conclusioni. La professoressa Serpell fa poi tutta una serie di esempi per dimostrare cosa intende, citando “Il Gladiatore 2” e una scena in cui una guardia consegna al protagonista una spada di legno, con cui dovrà combattere. Il protagonista si ribella e uccide la guardia usando la detta spada di legno, per poi curiosamente aggiungere: “Non importa che sia di ferro o di legno, una punta è sempre una punta!”. Ancora. In “Anòra“, che ha anche vinto l’Oscar come Miglior Film del 2025 la protagonista, dopo un frettoloso matrimonio a Las Vegas, esprime il desiderio di trascorrere la sua luna di miele in una suite da principessa. “Come Cenerentola!”, esclama la sua migliore amica, per ricordare a noi – il pubblico – che il film è una versione moderna della fiaba… sì, proprio della fiaba di “Cenerentola“, caso mai qualcunə non avesse afferrato il concetto.

Comprendo lo smarrimento di Serpell, perché questa è una tendenza – soprattutto del cinema statunitense – che è stata completamente sdoganata anni fa dai film Disney-Marvel. Si dice che il pubblico sia troppo “stupido” per capire e che voglia soltanto intrattenimento leggero, che non disturbi troppo i suoi pensieri né lo costringa a mettere in moto le cellule cerebrali. Chi lo dice sono quelle multinazionali dell’intrattenimento che quel gusto semplicistico e superficiale hanno modellato e alimentato per decenni, finché tutte le realtà, anche quelle indipendenti, hanno dovuto piegarsi al ricatto delle visualizzazioni a tutti i costi.

Di questa tendenza a sottovalutare il pubblico e raccontare le storie come se fossero copioni da spiegare alla troupe durante il primo giorno di riprese io ormai trovo le tracce in qualsiasi prodotto che affiora appena un po’ sulla superficie del mainstream. Anche le realtà indipendenti di cui sopra non ne sono immuni, anzi. Chi mi conosce sa che nutro poca stima per “Hazbin Hotel” e “Helluva Boss“. Il motivo è anche questo: Vivienne Medrano sembra trattare l3 su3 spettator3 come se non fossero in grado di capire da sol3. Le canzoni cantate dai personaggi non servono semplicemente a raccontare una storia.

Fanno il riassunto delle puntate precedenti, statuiscono l’ovvio, ci costringono a considerare quel personaggio buono e quell’altro cattivo non sulla base di ciò che fanno ma perché è la narrazione a dircelo. Perché sono tutti gli altri personaggi a guardarci dall’altro lato dello schermo e dirci cosa pensare: “Guardami, ho un trauma orribile!”, “Guarda, eravamo migliori amici ma poi abbiamo litigato perché io sono egoista!”, “Guarda, lui è cattivo perché è grasso, avido e antipatico e sfrutta i demoni al suo servizio!”, “Questa disavventura sicuramente lascerà nella mia psiche dei danni che non riuscirò mai a elaborare del tutto.”

Non è un problema soltanto di “Hazbin Hotel” e “Helluva Boss“, ovviamente. Chiunque legga manga shonen sa che il protagonista (maschile obbligatorio) di turno annuncia allə lettorə quale sarà il suo obiettivo nella storia, ripetendolo più volte nel corso della vicenda. E fin qui non c’è nulla di male, se si tiene conto quali sono i paletti di un genere tutto sommato “didascalico” e mirato a un range di età fra i 13 e i 18 anni. Se la storia viene poi raccontata, effettivamente, dando sfumature e personalità ai vari attori sulla scena e lasciando all3 lettor3 il compito di capire dove sta il bene e dove sta il male, ben venga.

Eppure basta guardare agli ultimi fenomeni di successo globale per capire che qualcosa si è rotto proprio nel modo di raccontare. Uno dei cardini della narrazione del manga shonen sono le battaglie. È costume dell3 duellant3 in campo annunciare i loro poteri e poi sarà il disegno stesso, da una tavola all’altra, a mostrarli in azione. Chi ha letto “Jujutsu Kaisen” sa che ormai anche questa parte della narrazione è stata sostituita da dialoghi. Dialoghi infiniti in cui i personaggi si ritrovano a spiegare la sceneggiatura all3 lettor3 per fare prima.

Una fretta giustificata dall’esigenza di far accumulare capitoli e rendere queste storie, affrettate, descritte piuttosto che raccontate, materiale pronto ad essere animato, per attirare più pubblico, produrre più merchandise, pescare più finanziatori da infilare nelle commissioni di produzione.

“Spiegare le storie” è diventato il cavallo sicuro su cui puntare, per evitare controversie, per mirare a incassi sicuri, perché la promessa di riempire un’ora e mezza della propria giornata di suoni e colori a caso dall’aspetto invitante attira più pubblico di storie mirate, che richiedono attenzione, capacità critica, sospensione del giudizio, volontà di seguire protagonist3 con cui magari potremmo anche non essere d’accordo. Purtroppo ormai ha vinto la visione dell’arte come di un mero carrozzone colorato, una scenografia in cui lə spettatorə deve sentirsi protagonista per vivere “un’esperienza”. Come in un parco divertimenti ci saranno delle guide a spiegarci in cosa consiste l’attrazione e una volta usciti dal cinema o spenta la televisione, basteranno poche ore per passare alla prossima attrazione. Il tempo di dire al nostro feed social che abbiamo anche noi partecipato a questa esperienza di moda.

Purtroppo, aveva ben ragione Martin Scorsese, quando definiva i film Marvel solo un luna park coloratissimo privo di emozioni e spessore. Peccato che invece che lasciarlo parlare, abbiamo lasciato che quel modo di fare cinema e narrare storie diventasse quello dominante. Quasi l’unico rimasto in circolazione.

[📜] ATTENTI A QUEL LINK

Un fotogramma dall’episodio speciale “La paura fa novanta III” dei “Simpson”

👉 https://pluralistic.net/2023/02/09/ai-monkeys-paw/

Dato che in uno dei miei interventi precedenti ho affrontato il problema dell’IA e del saccheggio senza vergogna che fa del lavoro altrui, mi sembra giusto segnalarvi un link che ritengo molto utile sull’argomento copyright.

In questo articolo “Copyright won’t solve creators’ generative AI problemsCory Doctorow controbatte a una delle misure che sono state più sventolate, nel corso dell’ultimo anno e qualcosa, per ovviare al problema dei Modelli di Linguaggio Ampio (Large Language Models), cibati con dati pescati dal web, senza alcun riguardo per l3 loro creator3.

Portando ad esempio ciò che è accaduto nell’industria discografica, Doctorow – che conosce molto bene l’argomento, da un punto di vista legale – dimostra come ampliare il raggio d’azione delle leggi sul copyright serve solo a consegnare nelle mani di case discografiche, case editrici e qualunque altra entità vi venga in mente in grado di confezionare, pubblicare e distribuire un’opera artisitca il potere di decidere cosa fare delle opere dell3 loro artist3, a chi darle, in che misura e anche chi ha e chi non ha il diritto di ispirarsi a quell’arte.

Lascio parlare l’articolo di Doctorow ma vi consiglio caldamente di esplorare tutto il tag dedicato al copyright presente sul suo blog. È molto illuminante e dimostra come l3 artist3 devono ricominciare a lottare per formare una rete e rappresentare i loro interessi, anche e soprattutto contro le grandi multinazionali dell’intrattenimento.

In un’epoca di conglomerati e monopoli è purtroppo già diventato evidente nei mesi scorsi come le grandi aziende fanno campagna per leggi sul copyright più stringenti solo per poter costringere l3 loro artist3 a firmare contratti capestri, consegnando di fatto nelle loro mani la capacità di prendere quelle opere – protette da un copyright che conviene soltanto a loro – e darle in pasto alle IA, così da poter smettere di pagare l3 artist3 e vivere solo di rendita a suon di prompt.


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